Archivi autore: Giovanna Brunitto
Nascere femmina
Poesia
L’amore è stupore
Storia di Bianca – Marzo 2018
L’altro giorno bevevo un tè in compagnia della mia più cara amica e, tra una chiacchiera e l’altra, Maria ha raccontato di sua cognata che dopo quindici anni di matrimonio si separa dal marito perché lui ha un’amante. Voglio bene a Maria e so che anche lei me ne vuole, ma non sono pronta ancora per riprendere a parlare di rapporti amorosi, nemmeno se riguardano qualcun altro. L’ho fissata seria e le ho detto di cambiare discorso. Lei facendo spallucce mi ha detto che non potremo osservare in eterno il silenzio stampa sull’amore. Ed effettivamente ha ragione, ma non ce la faccio. Non ancora. Al solo sentire la storia di sua cognata mi è tornata la rabbia e ho invidiato quella donna. Sì, avete capito bene, invidio sua cognata perché perlomeno ha una donna in carne e ossa con cui prendersela, un essere umano verso cui sfogare la rabbia di non essere più amata. Io invece non ho avuto neanche questo privilegio. Io sono stata lasciata per delle slot machine. Tre anni fa nella cittadina dove abito, ha aperto una sala bingo. Per noi cittadini è stata un’occasione di lavoro e la novità è stata accolta con entusiasmo. Ho trovato lavoro al banco che distribuiva gettoni per le slot e altri parenti e amici sono stati assunti dalla società che gestisce il locale. Il nostro paese non è in una zona di passaggio, siamo in una valle dove bisogna venirci apposta quindi fino a quel momento di stranieri ne avevamo visti pochi, ma con l’apertura della sala da noi è iniziato un viavai di gente. Il sabato organizzavano dei pullman dai paesi vicini e c’era il pienone in sala. Ripeto per noi è stata la manna del cielo. I bar dei dintorni e persino un paio di alberghi malmessi fino a poco tempo prima hanno iniziato a prosperare. Eravamo contenti e non pensavamo troppo alla provenienza di quel benessere. I primi mesi sono stati esaltanti. Mi piaceva il lavoro, mi piaceva sorridere ai visitatori e mi piaceva percepire finalmente uno stipendio regolare e non dipendere più dai miei. Poi passata l’euforia, ho iniziato a guardare meglio le persone che venivano e poco alla volta all’entusiasmo è subentrata la tristezza. Si trattava per la maggior parte di anziani soli e di uomini e donne di mezza età dall’aria scoraggiata. E, seppure le vincite erano modeste o nulle, le persone tornavano in sala sempre puntuali. Ho iniziato a fare i conti di quanto spendessero e restavo sbalordita perché con certezza dissipavano al gioco molto più di quanto guadagnassero o prendessero di pensione. A volte, a quelli che mi apparivano più disperati, cercavo di dare qualche consiglio bonario sul non spendere troppi soldi, ma la ludopatia è un comportamento difficilissimo da fermare. Credo che si rendessero conto che spendevano era al di sopra delle loro possibilità, ma non riuscivano a smettere. Non riuscivano a fermarsi. In quel periodo ho iniziato a dubitare del mio lavoro. Certe mattine ero assalita da una tale fiacca che mi risultava difficile persino tirarmi su dal letto. Mi passavano davanti le facce di quei poveretti che ogni sera tornavano quasi con zelo a rovinarsi ancora di più e mi veniva tristezza. So che non li costringevo io a giocarsi tutto al bingo e alle slot, ma mi sentivo complice lo stesso. Ero là e il mio stipendio arrivava dalle fortune di altri sperperate al gioco. Non mi ci ritrovavo in tutto questo, ma non volevo rinunciare alla paga e alla libertà. Ero molto combattuta se restare o andarmene. Poi prese a frequentare la sala un ragazzo di un paese vicino. Dapprima veniva solo qualche volta il sabato, poi col passare delle settimane iniziò a passare ogni sera. Si chiamava Umberto, veniva alla cassa e col suo sorriso solare, così diverso da quello mesto degli altri visitatori, mi chiedeva di dargli dei gettoni. Una sera mi chiese anche il numero di telefono, oltre i gettoni. Non sapevo cosa fare, ci avevano proibito di avere contatti privati con i frequentatori della sala, ma Umberto sorrise e mi schiacciò l’occhio con fare complice. Non ho saputo resistere. Iniziammo a frequentarci. Lui era divertente e trascorrere del tempo insieme era molto rilassante. Aveva la battuta pronta e respingeva qualsiasi ragionamento serio con arguzia. Mi fece passare la tristezza. Venina tutte le sere in sala giochi e io ero convinta che venisse per vedere me, non per giocare d’azzardo. Lui, poi, scambiava solo pochi spiccioli, non dava la sensazione di essere un giocatore incallito. Saltellava da qualche slot al mio banco con naturalezza. E’ un ragionamento stupido e ingenuo visto con gli occhi di oggi, ma in quel periodo io veramente pensavo che fosse lì solo per me. Se avessi avuto più esperienza sulla ludopatia, la maledetta malattia del gioco d’azzardo, avrei riconosciuto i segni. L’euforia ingiustificata, la semplicità con cui si spendono soldi credendo di poter fare vincite sicure, l’eccitazione al pensiero di scommettere. Ma ero innamorata cotta di Umberto e non riuscivo a vedere i segnali che indicavano che qualcosa non andava nel nostro rapporto. Col passare dei mesi, i segnali aumentarono. Lui schivava le mie richieste di vederci anche in orari diversi da quelli del mio lavoro. Per noi non c’erano gite fuori porta domenicali o tra i negozi del centro. Umberto di giorno lavorava e di sera era in sala. Le puntate al gioco iniziarono ad aumentare. Una sera facendo i conteggi, mi resi conto che anche lui spendeva più di quanto guadagnava. Lo giustificai pensando che non si fosse reso conto dei soldi buttate via e mi imposi di parlargli per farlo ragionare. Le mie parole, come al solito, non furono prese sul serio. Mi blandì dicendo che esageravo. Ma io sapevo che non era così, sapevo pure che non mi piaceva che giocasse così tanto, ma allo stesso tempo avevo paura che insistendo avremmo litigato. Così ho lasciato perdere per un po’, pensando che la mia vicinanza e il mio amore gli avrebbero fatto cambiare idea presto sull’esagerazione al gioco. Quanto sono stata stupida! Siamo andati avanti così per mesi. Umberto giocava sempre di più e io ero sempre più disperata, ma non riuscivo a fare niente. Poi è arrivata quella sera. Era un martedì. Stavo al banco come sempre e lui, finito di lavorare, mi ha raggiunto in sala. Era più agitato del solito e il suo sorriso che tanto amavo, appariva tirato. A metà serata, dovevo andare in bagno e gli ho chiesto di restare nei pressi del banco e dire alle persone che volevano i cambi monete di aspettare qualche minuto il mio arrivo. Lui si è seduto al mio posto. Mentre andavo verso i servizi, mi sono accorta di aver lasciato la borsa al banco e sono tornata indietro per riprenderla. Entrata in saletta, ho visto Umberto che estraeva dalla cassa manciate di monete che infilava in tasca. Una doccia fredda o un ceffone secco in viso mi avrebbero fatto meno male. La verità mi è apparsa in tutta la sua crudezza. Umberto stava rubando, senza neanche pensare che questo suo gesto metteva a repentaglio anche me. I controlli erano frequenti e la sala avrebbe potuto denunciarmi per un ammanco significativo. Lui lo sapeva. Ma mentre lo guardavo arraffare monete, il suo sguardo era appannato. Io non esistevo in quel momento e forse non ero mai esistita. Sono andata in bagno e non gli ho detto niente. Il giorno dopo ho dato le dimissioni. Era l’unico atto che potevo fare per dare un taglio a quella situazione. Sinceramente quando l’ho fatto pensavo che Umberto mi sarebbe corso a cercare, che mi avrebbe implorato di stare insieme a lui, cose così insomma. E invece non è accaduto niente. Come se io nella sua vita non ci fossi mai stata. Umberto, come mi hanno riferito alcun amici, ha continuato a frequentare la sala giochi. Io ho fatto fatica a trovare un altro lavoro, ma alla fine ce l’ho fatta. Quello che ancora non sono riuscita a fare è accettare l’idea che tutto quello che c’è stato fra noi era solo nella mia mente. Una psicologa che ho consultato mi ha detto che le persone affette da ludopatia sono chiuse in un mondo dove esiste esclusivamente il gioco d’azzardo. Fintanto che non si convincono che hanno un problema, non c’è modo di aiutarle. Fino ad allora tutto ciò che li circonda è un corollario utile a far sì che possano raggiungere il loro scopo. Io quindi sono stata un corollario. Non è semplice da accettare. Ci vuole tempo. Sono tornata al mio tè, ho sorriso a Maria e le ho premesso che riprenderò a parlare d’amore. Non so ancora quando, ma lo farò.
Storia di Gino Baronchelli – Febbraio 2018
Pasta e fagioli” pubblicata sul n. 10 di Confidenze, è la storia vera di Ginone Baronchelli ed è stata la più votata della settimana sulla pagina Facebook di Confidenze. La trovate anche sul BLOG in versione integrale.
Storia vera di Gino Baronchelli
Nelle famiglie, solitamente, ci si tramandano titoli o patrimoni, invece nella mia ci passiamo da una mano all’altra un pentolone. Sì, una pignatta enorme che il cuoco Gino Baronchelli, mio nonno, si portò dietro direttamente dalla trincea di Asiago dove fu mandato soldato. Da lui, oltre al pentolone ho ereditato anche il nome e ne sono enormemente fiero. Considero mio nonno un eroe, di quelli che fanno le cose semplici e provvidenziali e fanno del bene a coloro che hanno intorno senza neppur darci troppo peso. Una persona rara e, soprattutto, buona oltre ogni ragionevole aspettativa, in un mondo che certamente non predisponeva al bene, come quello del 1918. A gennaio di quell’anno infausto, l’Italia era nel pieno della Prima Guerra Mondiale. A ottobre del 1917, l’esercito italiano aveva subito la disfatta di Caporetto e a novembre con le battaglie del Piave l’avanzata italiana era ripartita. Il fronte si era rispostato in montagna. Nella zona del Monte Grappa le trincee erano da presidiare e c’era bisogno di forze nuove, soldati che avrebbero dovuto sostituire quelli stremati dalle battaglie e dal freddo degli ultimi mesi.
Furono perciò obbligati alla leva i giovani nati nel 1899 che avevano compiuto appena diciotto anni. Tra questi venne arruolato il giovane Gino Baronchelli da Orzinuovi, provincia di Brescia. Mio nonno. La sua famiglia, preoccupatissima per il Ginone, così era chiamato mio nonno per la sua grande stazza, lo riempì di masserizie. Tutte quelle che potevano stare in uno zaino da portare in spalla. In particolare un sacco di pomodori, uno di fagioli borlotti, pasta secca, cotiche, aglio e cipolla affinché potesse sostentarsi durante i lunghi mesi lontano da casa. I miei avi erano contadini e sapevano bene quanto quelle cibarie potessero essere utili in un periodo di scarsità come quello della guerra.
Il mese di gennaio del 1918 nelle trincee dell’Altipiano fu davvero terribile. Sul Monte Grappa le cronache riportano temperature che arrivarono a meno venticinque gradi.
Non so bene cosa accadde, se fu per il troppo freddo o per la fame, ma il giovane Ginone, addetto alle cucine del campo, decise di cucinare con le scorte portate da casa una grande pasta fagioli e cotiche per tutto il suo plotone, composto da circa cinquanta commilitoni. Non chiese neanche il permesso al suo comandante, mise nel paiolo gli ingredienti e iniziò a mescolare. Nevicava abbondantemente, ma probabilmente il caldo del pentolone lo riscaldava comunque. Dal paiolo, piano piano, il profumo della sua pasta e fagioli si diffuse per tutta la trincea e, siccome gli odori non hanno confini, l’aroma superò i reticolati di filo spinato e atterrò nella trincea dei nemici che, in fin dei conti, era pochi metri avanti. E accadde una cosa strana.
Dalle trincee austroungariche si cominciarono a sentire diversi sospiri. I soldati nemici, come gli italiani, stremati dalle fatiche della guerra, dalla fame e dalla cattiva alimentazione, cominciarono a piangere ripensando alle loro case, ai piatti che le loro mamme e mogli cucinavano per loro. La cucina di Ginone richiamava in tutti, indipendentemente da quale divisa indossassero, forti emozioni. Marinon von Rokken, un soldato austriaco più sfrontato o forse solo più stanco degli altri, che parlava italiano, trovò il coraggio e cominciò a gridare verso la trincea italiana: «Taliani! Cecco Beppe! Kosa essere questo buon profuminen?».
Nella trincea italiana scese il silenzio e una strana calma. I cecchini italiani si sedettero, cominciarono ad arrotolarsi le sigarette, fu Ginone a rispondere al soldato austriaco: «Uheee crucchi! Ah l’è la pasta e fasoi de la mi mama! A l’è propi bona… Volete assaggiare?». Gelo e silenzio calarono da ambo le parti. Il comandante di Ginone non sapeva se mandarlo subito davanti al plotone di esecuzione per tradimento o cos’altro fare. Probabilmente aveva fame anche lui e aspettò qualche minuto in più prima di far partire la dovuta punizione, ma nel frattempo tra le due trincee era iniziato un fitto parlottio. I comandanti delle rispettive compagnie dovettero intervenire e, avvolti dal profumo di pasta e fagioli, trovarono un accordo.
Forse fu il buon odore, forse la fame o forse la consapevolezza che quei poveri ragazzi, di entrambi le parti, avevano bisogno di una pausa da una guerra crudele che la grande maggioranza di loro neanche comprendeva, certo è che accadde un vero e proprio miracolo. Decisero una tregua sul campo.
Cinquanta soldati italiani e cinquanta soldati austro-ungarici attraversarono la “terra-di-nessuno”, così era conosciuto lo spazio che divideva le trincee nemiche, e imbastirono un’unica tavolata, mangiando tutti insieme. I soldati austriaci portarono il vino rosso e dei dolci tipici viennesi, simili ai plumcake, i nostri portarono la saporita e profumatissima pasta e fagioli di Ginone, fatta con le sue scorte personali. Per diverse ore tutti dimenticarono di essere nemici. Quel pranzo insieme riportò ciascuno al calore di un focolare. Seppur intimoriti di avere davanti i “nemici”, i soldati si riconobbero, non più come rivali, ma come simili, con l’unico comune desiderio di trascorrere un momento tranquillo. Vennero gridate a squarciagola promesse di pace: nessuno voleva più sparare. Gli uomini, non più soldati, si abbracciarono anche se non si erano mai visti prima. Mio nonno raccontava che tutti si scambiarono regali con chi avevano di fianco. Fotografie o sigarette, sorsi di Grappa, addirittura bottoni della divisa: tutti erano pronti a offrire qualcosa. Seppur solo per qualche ora, in quella landa gelata, riecheggiarono risate di giovani uomini.
La tregua della pasta e fagioli finì, ma grazie a mio nonno e alla sua generosità, i soldati ricordarono di essere prima di ogni altra cosa uomini. La guerra di lì a poco terminò e Ginone riportò la sua cara pentolaccia a casa. Sono passati cento anni giusti da allora, ma il gesto di coraggio e generosità di mio nonno ancora oggi mi riempie di orgoglio. Essere il nipote di un “uomo di pace” è un grande onore e una grande responsabilità. Per far sì che la memoria di quel gesto non si perda, una volta l’anno organizzo una “pasta e fagiolata” proponendo quello stesso piatto, per lo stesso numero di persone, cucinato nel pentolone originale che mio nonno riportò dalla Grande Guerra, con gli stessi pomodori e fagioli che i nostri parenti ancora oggi coltivano nella piana bresciana. E auguro a tutti i presenti di potersi definire sempre anche loro uomini di pace..
Pillola di saggezza
Amare significa comprendere i limiti degli altri
Infinito
Infinito
è un momento breve
eppure perfetto
per questo è infinito
in poco tempo c’è tutto
tranne la fine
Incontro
Incontro
Storia di Tatiana – Gennaio 2018
Storia di Chiara – Dicembre 2017
La storia di Chiara Sala e di un viaggio
“Funga mkanda wa kiti chako wakati umekaa – allacciare le cinture di sicurezza quando si è seduti”. Questa la scritta sul sedile di fronte a me, sul piccolo aereo, che da Nairobi mi ha portato all’aeroporto del Kilimamgiaro. Viaggio da sola, sotto di me una distesa di suolo giallo con le tipiche Acacie e nel cuore una sola sensazione: sono in Africa! Un viaggio che porterò con me per sempre. Anzi più di un viaggio, un’esperienza, a tratti un’avventura, che ogni persona dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Mi chiamo Chiara, sono nata e cresciuta a Monza ed era dal tempo delle elementari che sognavo l’Africa. Ho dovuto aspettare la maggiore età, un lavoro in un centro commerciale e l’associazione Onlus milanese Year Out per realizzare il mio progetto. Volevo qualcosa che mi avrebbe permesso di conoscere un’altra cultura, altri modi di vivere, e perché no, di aiutare gli altri, facendo qualcosa che mi rimanesse nella vita. Volevo un progetto da seguire integralmente. Tra quelli proposti dall’associazione c’è quello con il partner Ethical Encounters in terra masai nel nord est della Tanzania, vicino al confine con il Kenya. Il mio compito sarebbe stato quello di insegnare inglese nel piccolo pre-scuola del villaggio, dove i bimbi non hanno né banco né libri. Un’insegnante, Ana, insegna loro la lingua Swahili, ma è importante i piccoli possano entrare in contatto anche col mondo esterno. Era quello che volevo. Ho raccolto tutte le ferie possibili e il 03 Settembre sono atterrata all’Aeroporto Internazionale del Kilimangiaro, dove è venuto a prendermi Amani, uomo masai che è stato il mio referente e la mia ombra per tutto il tempo che sono stata in Tanzania. Siamo andati al villaggio che si trova a Monduli Juu, un distretto situato su un altipiano di 1800 metri. Arrivati sul posto, a parte un prete croato che vive su una collina a venti minuti di distanza, sono l’unica bianca. I Masai sono un popolo antico che ha mantenuto intatti usi e tradizioni, perlopiù dediti alla pastorizia e per fortuna ancora poco “corrotti” dalla globalizzazione. Sono molto curiosi e gentili e al mercato, accompagnata dall’onnipresente Amani, continuano a chiamarmi “Musungu! Musungu! Musungu Masai!” (Masai bianca). E’ strano a dirsi, ma la vita estremamente semplice del villaggio ha riempito le mie giornate con una tale intensità da non accorgermi del tempo che passava. Alle sette del mattino mi alzavo, ma il villaggio era già in piena attività dalle sei del mattino. Nel dormiveglia mi giungevano suoni e versi degli animali che per i Masai sono fonte di cibo e allo stesso tempo esseri viventi degni di rispetto. Caprette, galline, asini e vitelli gironzolano liberi insieme ai bimbi e fanno parte del quotidiano di ciascuno. Nel villaggio tutti fanno qualcosa, i bimbi più grandicelli danno una mano agli adulti portando gli animali al pascolo, i più piccoli restano al villaggio prendendosi cura dei fratellini e sorelline. Al villaggio ho avuto modo di giocare con Beni e Violet, due bimbi meravigliosi e mi sono presa cura di Sharon di cinque mesi, figlia di Amani. Nella tribù ho trovato una grande unione, sia tra le persone appartenenti allo stesso gruppo, sia con la natura circostante. Come se i Masai avessero un legame che, indipendentemente dalla famiglia in senso stretto, li tiene uniti come comunità. Sono poco interessati a ciò che accade nel mondo, se hanno un problema lo risolvono da soli, senza l’aiuto della polizia o dei medici. Gli anziani della tribù sono tenuti in grande considerazione da tutti e per le decisioni che riguardano la comunità sono sempre consultati e ascoltati. Nonostante i pro e i contro di ogni cultura, dovremmo imparare qualcosa sul senso di comunità dei Masai, in una società come la nostra dove l’individuo è al centro di tutto. E per tornare alla mia esperienza ed essere realistici, la casa che mi hanno assegnato è una capanna. La più bella del villaggio, certo, ma pur sempre di legno e fango, con tetto in lamiera (le altre hanno il tetto di paglia). Non c’è elettricità, né acqua corrente e per bere compro le bottigliette al mercato. I Masai invece la prendono da delle pozze naturali nel terreno, dove l’acqua è torbida e terrosa. Per un mese mi sono lavata in un secchio. Amani nella sua capanna ha la bombola a gas, ma le altre sono piene di fumo perché per cucinare usano ancora i carboni. Ho fatto un po’ di tutto. Sono andata al mercato con i secchi di iuta pieni di mais e sono tornata con la farina. Ho selezionato i fagioli buoni da quelli cattivi, ho trasportato venti litri d’acqua sulla schiena, ho cucinato e tagliato verdure con le donne masai, ho lavato panni, fatto braccialetti, provato a mungere una mucca e ho assaggiato la canna da zucchero. Ho mangiato carne di capretto cotta al momento da un piatto comune in un posto per soli uomini, Amani non mi ha lasciato mai sola. Con lui ho fatto lunghe camminate, ho visto le scimmie e sono andata in motoretta nella Rift-Valley, una grande depressione geologica formatasi milioni di anni fa. Qui sembra che il tempo si sia fermato, ho visto i guerrieri Morani, protettori della comunità, con la lancia in mano e le donne e i bambini mi guardavano come se vedessero per la prima volta un bianco, e probabilmente era così. Dopo alcuni giorni ho iniziato l’esperienza a scuola con circa 30 bambini dai quattro ai sette anni. Per loro non è sempre facile raggiungere la scuola da soli. Può essere pericoloso cadere nelle spaccature del terreno durante le mattinate di nebbia o durante la stagione delle piogge. Per questo i fondi raccolti servono nella realizzazione di una scuola più vicina e accessibile. Ho scoperto in me una grande motivazione che non sospettavo di avere e insegnare mi è piaciuto e mi ha dato grandi soddisfazioni. Ho un ricordo particolarmente caro che mi farà compagnia in futuro. Da una capanna di legno, ho intravisto un focolare circondato da sette ciocchi di legno sui quali sedeva un’intera famiglia. La mamma cucinava in un grosso tegame e tutti intonavano una canzone dal sapore ancestrale che sembrava legasse quella famiglia ad antiche tradizioni e alla natura circostante. Ho alzato gli occhi e sopra di me la Via Lattea mi ha offerto il più bello e luminoso cielo stellato che abbia mai potuto vedere. Il mio viaggio ha seguito un itinerario fisico e spirituale che mi ha permesso di conoscere delle persone fantastiche che mi hanno insegnato tantissimo, sicuramente più di quanto ho dato loro. Spero che altra gente possa e voglia vivere questa meravigliosa esperienza. I Masai hanno bisogno di acqua potabile, di medicine, di istruzione e spero di poterli aiutare ancora. Oltre alla voglia e conferma di voler continuare a viaggiare, porterò con me il ricordo delle risate con le donne, le lunghe chiacchierate durante la cena, il tempo passato all’aria aperta e soprattutto la loro forza e la loro fierezza e quella vita semplice che riusciva comunque a riempire e dare un senso alle mie giornate.