Del perché Saviano mi urta i nervi e del perché Saviano ha ragione

Saviano … Saviano … Saviano …
chi lo ama tantissimo e chi lo odia con uguale forza. Una delle poche persone sulle quali ho sentito e letto tutto ed il contrario di tutto. Ragioni valide da entrambi le parti. E’ troppo napoletano, non lo è abbastanza. Ama la sua città, la odia tanto da denigrarla appena può. E’ passionale, no è un esaltato. Di tutto, insomma.

E poi arriva questa notizia: Sparatoria a Napoli nel centro storico il giorno prima della Befana. Colpita bambina di 10 anni al piede da proittile vagante. Altri 3 feriti lievi tra i passanti.
La bambina era napoletana, forse neanche di quelle ricche, e visto questi e altri presupposti, la notizia data ha preso un’altra piega e si è focalizzata sulla polemica, molto più “importante”, di De Magistris verso Saviano che ha denunciato il fatto sulle pagine di un quotidiano. Il Sindaco ha accusato lo scrittore di infangare la città per fini di lucro. Ho seguito la polemica inutile di cui non sentivo nessun bisogno e mi sono fermata a pensare.

E se la notizia fosse stata questa:

MILANO in una sparatoria nel centro città, vicino ai luoghi del potere e del turismo, viene ferita ad un piede una bambina di 10 anni, oltre ad altre 3 persone lì presenti. La bambina viene operata d’urgenza e per fortuna sta bene.

Se fosse accaduta a MILANO o in un’altra qualsiasi città, possibilmente del Nord Italia, e fosse stata colpita una bimba di 10 anni ad un piede da un proiettile, siamo sicuri che staremmo a discutere sul fatto che “certe cose” è meglio non dirle o dirle enfatizzando anche le cose positive che pur ci sono in quella città?!?
Credo proprio di no.
Fintanto che Napoli (città composta da noi uomini e donne) non prenderà atto che queste barbarie sono inaccettabili e non le accetterà più, la barbarie resterà.
Roberto Saviano è urticante ma è una voce che si leva a denuncia di questo.

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Storia di Loredana – Dicembre 2016

 “Echi di zampogne” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 52 di Confidenze – Numero di Natale

Il 2014 è stato quello in cui mi si è rotto tutto.  Ho dovuto cambiare l’automobile per un guasto al motore, TV e computer mi hanno abbandonato per un fulmine che ha colpito il palazzo in cui vivo e la lavatrice ha smesso di perdere acqua solo quando l’ho buttata via definitivamente. E si è rotta anche la mia storia con Gianluca. Dopo cinque anni di relazione, mi sembrava giunto il momento di qualcosa di più serio di weekend fuori, cene e feste.  Entrambi avevamo passato la trentina già da un po’ e sentivo l’esigenza di un rapporto più stabile, di qualcosa che potesse definirsi l’inizio di una famiglia, ma lui non era d’accordo.  Mi ha augurato di trovare presto un compagno serio, ha sottolineato più volte la parola “serio”, ed è uscito dalla porta e dalla mia vita. Ho provato a chiamarlo ma non ha risposto. Qualche giorno dopo, è arrivata la notizia della brutta malattia di mia madre e mi sono dimenticata di cercarlo. Ho percorso la strada da nord a sud della penisola ogni settimana per starle vicino, ma quel male se l’è portata via in pochi mesi. La sua perdita mi ha rotto il cuore. L’anno è finito e non c’era più niente che si potesse rompere. I mesi successivi sono trascorsi quasi senza che ne avessi consapevolezza, aiutata dal mio lavoro che mi ha occupato tutti gli spazi possibili.  Ho lavorato ininterrottamente senza un giorno di ferie fino a dicembre. Ero stremata e soprattutto ero sola. Mia mamma amava l’ultimo mese dell’anno e per Natale organizzava grandi feste che riunivano la famiglia. Ma quest’anno lei non c’era e quindi avevo deciso che non sarei andata a casa dai miei. L’idea di trovare la casa vuota o di essere, tra i miei fratelli, l’unica senza compagno o famiglia, mi era insopportabile. Avevo accampato all’inizio del mese delle scuse lavorative che mi avrebbero trattenuto a Milano e avevo deciso che non avrei festeggiato le festività in nessun modo. Contavo sulla complicità della città meneghina che, con la sua forte vocazione lavorativa e i ritmi frenetici, mi avrebbe di certo aiutato a dimenticare Natale e la solitudine o quanto meno a non ricordarmeli ogni minuto. Per me Natale è sempre stato l’odore dei mandarini, i rococò, il presepe e la tombola in famiglia, non certo vetrine addobbate come passerelle e luci da stadio. Quindi non correvo rischi a Milano, del mio Natale non ne avrei trovato traccia. La certezza è sfumata il giorno dopo Sant’Ambrogio. Sono rientrata a casa prima del solito per una riunione saltata all’ultimo minuto, la sera non era ancora del tutto arrivata. Mentre giravo la chiave nel portone della palazzina, ho sentito una nenia, una musica. Era il suono di una zampogna. Al centro del giardino condominiale c’erano un gruppo di quattro zampognari che suonavano la novena intorno ad una nicchia dove il custode normalmente montava un brutto presepe fatto da lui di cui andava fierissimo. Sono rimasta così colpita dal suono  che mi sono avvicinata. Ad ogni passo sentivo lo stomaco contrarsi. Quel suono mi era così familiare. Quando ero piccola al mio paese gli zampognari comparivano agli inizi di dicembre e facevano il giro in tutti i portoni , suonando le canzoni tradizionali del Natale. Erano un avvenimento nuovo ed allo stesso tempo rappresentavano il perpetrarsi della tradizione. Ogni famiglia faceva loro un’offerta e  tutti li tenevano in grande considerazione, come dei re magi venuti apposta per festeggiare insieme a noi il Natale. Ecco quel ricordo mi sapeva di una magia che non ricordavo più. Ero senza parole e quando hanno finito, mi sono ritrovata con le lacrime agli occhi. Mi sono vergognata di questa debolezza e senza neanche salutare ho battuto i tacchi e sono salita a casa mia. Una volta sul divano mi sono accorta che non avevo fatto neanche un’offerta. Se mia madre avesse potuto vedermi, mi avrebbe ripreso e rimproverato: “Loredana è Natale, è la Festa più importante dell’anno, offri quello che hai e vedrai che il Signore ti ricompenserà mille volte di più.” Ma la solitudine della mia casa mi ha riportato alla realtà e mi ha fatto dimenticare il calore che mi aveva invaso sentendo la musica. Il giorno dopo con umore cupissimo sono ripassata dal giardino e ho dato un occhio al presepe, spinta da una strana curiosità. Non era il solito, questo era certo. Era molto curato nei particolari, con dei pastori bellissimi che riproducevano lavori artigianali. Ero intenta a guardare ogni cosa e non mi sono accorta che alle mie spalle c’era una persona. La sua voce possente mi ha riportata alla realtà. Era un uomo sulla quarantina, alto e con dei bellissimi occhi nocciola. Si è presentato, si chiamava Andrea ed era il nuovo portiere che da un semestre lavorava nel palazzo. Aveva la passione per i presepi ed aveva chiamato gli zampognari, un gruppo di suonatori di Concorezzo in provincia di Milano che conosceva, perché senza novena non gli sembrava Natale.  E poi ha parlato del suo arrivo a Milano e del suo nuovo lavoro che gli piaceva tanto. Mi ha detto anche che mi vedeva sempre da sola e spesso gli sono apparsa triste e per quel motivo non si era avvicinato prima. Davanti al caffè che ha insistito per offrirmi al bar all’angolo, finalmente ha smesso di parlare e sorridendo mi ha chiesto come mi chiamassi. Gli ho detto il mio nome e poco altro, poi sono andata di corsa al lavoro. In metropolitana mi sono ritrovata a sorridere tra me e me, come non mi capitava da tempo. Andrea mi aveva avvolto con la sua parlantina e mi aveva guardato, tra una chiacchera e l’altra, con quei suoi occhi bellissimi. Mi aveva fatto sentire bella come non mi capitava da anni. Il tutto in una manciata di minuti che non arrivavano a mezzora. Non sospettavo quella mattina che l’avrei rivisto quello stesso pomeriggio, mi stava aspettando all’entrata del portone per accompagnarmi fino all’appartamento e per strapparmi una specie di mezzo appuntamento per il giorno dopo per ascoltare insieme la novena degli zampognari. E così con quel suo modo di fare a tratti indolente, a tratti diretto e ruvido, Andrea mi ha fatto compagnia per  tutto il mese. Mi ha preso il cuore così, tra una novena e l’altra, e senza quasi che io potessi opporgli resistenza. Alla vigilia di Natale è venuto da me per la cena. Abbiamo mangiato, giocato a tombola e poi siamo andati insieme alla messa di mezzanotte. Anche il resto della notte l’abbiamo trascorsa insieme. Abbiamo parlato tanto e fatto l’amore. E’ stata la notte di Natale più bella che ho avuto o forse no. Forse a pensarci bene la notte più bella sarà quella di quest’anno, perché se i tempi saranno quelli giusti, a Natale prossimo saremo io, Andrea e la nostra bambina. Ma se dovessimo aspettare ancora qualche giorno per incontrare la nostra piccola, sarà un Natale comunque meraviglioso perché come ha detto Andrea l’anno scorso, Natale è una festa che ognuno di noi si porta dentro. Non importa dove si è, con chi si è o quale brutto momento si stia attraversando, se sappiamo cercare dentro di noi, troveremo la forza e la fiducia per rinascere. Io grazie a lui, l’ho trovata. echi-di-zamponge-natale-21-dicembre-2016_pagina_1

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Mostra Rubens – Palazzo Reale Milano

Pieter Paul Rubens

Una mostra a Palazzo Reale di Milano è un evento. Sempre.
E così è anche per Rubens che è approdato nel salotto buono della cultura milanese. Mostra osannata da stampa e affollatissima di visitatori. Rubens si conosce poco in Italia, perché ha lavorato molto all’estero e perché gli artisti e geni nostrani tra fine 500 e inizio 600 erano veramente tanti e non v’era necessità di rivolgersi altrove.
Anzi gli altri venivano da noi. Proprio come ha fatto Rubens nel soggiorno italiano durato quasi 10 anni tra le nelle maggiori città italiane di allora: Venezia, Mantova e Roma.
Resta folgorato dalle opere veneziane di Tintoretto, Tiziano e Veronese. A Roma conosce le  opere di Michelangelo, Raffaello e Caravaggio. E poi Bernini e tanti altri.
E si vede!
Tutte le sue opere risentiranno negli anni dell’influenza italiana, della luce soffusa o spinario_galleria_estense_modena1diffusa, dei corpi plastici o scolpiti, della classicità e degli eroi, fino alle figure sacre e alla rappresentazione della simbologia .
Se questa mostra farà conoscere Rubens in Italia non so.
Secondo me i ostri artisti erano superiori per stile, pennello ed ispirazione, quando non vero genio.
Però vedere che siamo fonte di ispirazione così profonda fa bene al nostro ego italiano.
E questo è il primo motivo per cui vale la pena visitare la mostra.
Il secondo, forse inconsapevole da parte dei curatori, è la presenza di scultura classiche e cinquecentesche bellissime. Secondo me molto più belle di molte delle tele presenti.
Cito solo tra le altre: Uno studio del viso di Santa Teresa del Bernini – visibile ad altezza normale – e un bambino che si libera il piede da una spina, copia di un classico greco.
SOLO  questa opera vale il prezzo del biglietto.

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Incontro “Discorso sul femminile” 01 Dic 2016 …il caso Elena Ferrante

TIM Equity & Inclusion Week 2016 è la settimana dedicata all’ “EQUITY & INCLUSION” che ha come obiettivo principale la promozione dell’inclusione, letta nel senso più alto del termine,dare «a ciascuno gli strumenti per competere alla pari e per dare il meglio di sé».

Rachele Catanese ed io abbiamo proposto un progetto che ha comefocus la differenze di genere. Quindi un discorso sul femminile imperniato tra letteratura ed arte.
Per la letteratura, parlerò del caso ELENA FERRANTE …

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Le anime morte

Gente di Napoli

Sono tanti, insetti brulicanti
in tutte le direzioni
vanno e arrivano
un continuo ritorno
senza meta.
Anime morte,
con occhi aperti e piedi mobili.
Senza libertà e senza ordine.
Belli, brutti, a volte chiaramente saraceni.
Tutti nel girone infernale che affaccia sul Paradiso.
Lo si vede bene, in tutti i particolari,
Paradiso vicino e quasi si tocca.
E forse per questo il cuore resta,
ma è irragiungibile.
Il passaggio è stretto e si attraversa a piedi
uno per volta, in fila,
senza raccomandazioni e conoscenze,
solo con cognizione di causa.
Per passare bisogna essere in pace con se stessi,
liberi nel pensiero
rispettosi dell’altro.
Da Napoli non si accede quindi.
Bisogna andar via e vedere se la porta si apre da un’altra parte.
Tristemente a volte accade.
Il Paradiso vuole la testa e non il cuore.

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01 Dic 2016 – Convegno incontro su “Un discorso sul femminile: dalla cultura svelata alla scultura velata”

«Un discorso sul femminile: dalla cultura svelata alla scultura velata»

a cura di Giovanna Brunitto e Rachele Catanese

Il femminile tra letteratura ed arte: il racconto de ‘L’amica geniale’ di Elena Ferrante, un caso letterario unico nel panorama culturale italiano, a confronto  con la scultura del barocco italiano tra estetismo e fascinazione.

#TIM4inclusion

discorso-sul-femminile-01-dicembre-2016

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Di Bob Dylan e di come la ribellione si avvicina all’arroganza

Che non sarebbe stato un Nobel “facile” penso che lo sapessero bene i componenti del premio più ambito al mondo. E forse proprio per questo, per un leggero gusto all’azzardo che caratterizza questi nordici, hanno deciso di assegnare a lui il Nobel della Letteratura.

Avevano messo in conto la ribellione, morbida e sottesa, ma pur sempre parte integrante del menestrello della musica folk mondiale che ha ispirato generazioni intere e avevano forse messo in conto un rifiuto o qualcosa del genere.

Forse avevano anche pensato di dover consegnare quel premio ad uno scranno vuoto perché si sa che Bob Dylan il frac probabilmente non l’ha mai indossato né lo indosserà mai.

Insomma la ribellione, la rivolta, il voler fuggire dal mondo intero, la ricerca di una pace interiore che forse non arriverà mai, e persino l’accettazione della vecchiaia come scusa per non affrontare un lungo viaggio…tutto questo è molto di più, cose che solo lui sa dire e cantare in un certo modo, i parrucconi svedesi l’avevano messo in conto.

Ma l’arroganza no! Quella è stata una sorpresa per loro e per noi tutti.

Perché si può rifiutare un riconoscimento in cui non si crede, ma non si può dire che non si ritira  premio perché si sono presi altri impegni.

Questa è semplicemente una mancanza di rispetto verso tutti, da coloro che l’hanno seguito sempre a coloro che hanno creduto che meritava il Nobel.

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Storia di Paola – Novembre 2016

La storia più apprezzata della settimana è “Non sei più tu” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 44 di Confidenze.

Sul blog di CONFIDENZE – Storia vera di Paola F.

Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee” con queste parole il poeta Gibran descrive cosa un genitore può dare ai propri figli e ogni volta che ci penso il mio cuore si fa pesante e mi chiedo cosa abbia dato io a mio figlio. La risposta a oggi non la so dare, non vedo Alberto da mesi. Ma andiamo con ordine. Mio figlio è arrivato che avevo appena finito l’Università, avevo 25 anni. Ci siamo sposati in fretta io e Nicola e, per quel bimbo in arrivo, avremmo fatto qualsiasi cosa. Nicola aveva appena iniziato a lavorare come commercialista in uno studio e lo stipendio era modesto, ma ce l’abbiamo fatta con tanto amore e tanti sacrifici. Dopo qualche anno, avevamo uno studio nostro, una bella casa e un bambino che adoravamo e viziavamo. Niente era mai troppo per il nostro Alberto. Vacanze e soggiorni all’estero d’estate, settimana bianca in inverno e scuole private per dargli un’educazione che fosse la migliore possibile. Alberto non è mai stato portato per gli studi ma con diversi aiuti e ripetizioni varie, alla fine si è diplomato. L’adolescenza è stata per nostro figlio un periodo di indolenza e, nonostante i mille stimoli che gli proponessimo, niente sembrava interessarlo per davvero. Aveva qualche amico e aveva avuto anche qualche ragazzina, ma se restava solo non se ne faceva un problema. Si chiudeva nella sua camera per interi pomeriggi a fare niente. Io e Nicola lo osservavamo preoccupati, ma studiava quanto basta, era tranquillo e non ci dava particolari problemi, quindi non potevamo dirgli niente se non di avere più interessi, di praticare qualche sport, di uscire un po’ di più. Avremmo fatto qualsiasi cosa per quel ragazzino, per vederlo contento, ma lui era solitario e parlava poco con noi, non sapevamo niente di cosa pensasse o di come si sentisse, e poi, in fondo pensavamo che tutti i giovani sono così a quell’età.

Finito il liceo, gli abbiamo regalato un viaggio negli Usa promesso da anni; ci sembrava un inizio importante per la vita da adulto, gli sarebbe servito per staccarsi un po’ dal nido e rendersi più indipendente anche nelle cose quotidiane. Questo è quello che ci dicevamo per rassicurarci, vedere Alberto partire da solo ci faceva paura, ma dovevamo accettare che stesse diventando adulto. Al ritorno avrebbe dovuto iniziare la facoltà di Giurisprudenza, scelta da lui. Ad agosto, dopo un mese che era via, chiamò per dirci che non sarebbe tornato subito ma avrebbe prolungato il viaggio di qualche settimana. Era a Long Beach in California e aveva conosciuto dei ragazzi che si allenavano sulla spiaggia per dei campionati di culturismo, voleva restare fino a settembre per assistere alla gara. Io e mio marito eravamo contenti di sentirlo entusiasta e anche meravigliati perché, fino a quel momento, non si era mai interessato di sport e cura dei muscoli.

A quella telefonata ne seguirono altre e le richieste erano sempre le stesse, soldi e altro tempo per stare negli Stati Uniti. L’iscrizione all’Università nel frattempo era saltata. La contentezza mia e di mio marito svanì presto, continuavamo a chiederci cosa stesse succedendo e se avessimo fatto bene a mandarlo così lontano da solo. Alberto al telefono ci parlava di palestre, di ragazze, di cantanti e musica rap. Non capivamo i suoi interessi ed eravamo molto preoccupati, ma ci dicevamo che se questo era il suo desiderio, l’avremmo assecondato, perché quello che ci è sempre stato a cuore più di ogni altra cosa al mondo è la felicità di nostro figlio. Digerire che non andasse all’Università non è stato semplice per me che già lo immaginavo avvocato di grido in tutti i tribunali italiani, ma pian piano mi sono abituata all’idea. Forse, pensavo tra me e me, quando torna in Italia approfondirà l’esperienza americana e proseguirà gli studi di Educazione Fisica, magari potrebbe diventare insegnante. Cercavo di calmarmi da un’ansia subdola che mi divorava e che a stento placavo. Avevo sempre riso di quelle mamme che sono costantemente preoccupate per i figli e adesso ero diventata una di loro. Poco prima di Natale, Alberto rientrò in Italia e il mio ragazzino emaciato e scontroso era scomparso per dare spazio a un giovane uomo abbronzato e muscoloso. Nel giro di qualche mese era cambiato nel fisico ma anche nei pensieri. Aveva idee estremiste che erano lontane ed estranee alla nostra famiglia. Ce l’aveva con gli immigrati e con le tasse esose che secondo lui non dovevano essere pagate. Io e Nicola, all’inizio, lo prendevamo in giro perché gli dicevamo che se fosse stato così noi, essendo commercialisti, saremmo rimasti senza lavoro, ma Alberto sembrava non cogliere l’ironia e continuava con le sue invettive. E poi è iniziato il valzer delle ragazze. Una dopo l’altra, consumate come caramelle, tutte appariscenti e vuote, tutte uguali. Ero atterrita dalla nuova vita che Alberto portava avanti. Avevo la sensazione di perderlo a piccoli pezzi, ogni giorno di più. Non ci assomigliava e non aveva neanche voglia di assomigliarci. Era diverso, ma in una maniera per me inaccettabile. Non mi piacciono le persone che hanno idee estremiste, non mi piacciono i razzisti, non mi piacciono quelli che buttano via le giornate senza impegni come se il futuro non fosse da costruire, non mi piacciono gli uomini che trattano le donne come oggetti da consumare. E mio figlio era una di queste persone. Ero lacerata dal dolore. Volevo scuoterlo, volevo tirarlo via da questo limbo dov’era ma non sapevo come fare. Ogni volta che intavolavamo un discorso, finiva con urla e litigi. E se provavo a parlarci da sola, era pure peggio. Alberto mi diceva che si vedeva lontano un miglio che non approvavo le sue scelte, ma a lui andava bene così. Sbatteva qualcosa e se ne andava. Qualche mese dopo, ha trovato lavoro in una palestra e le cose si sono assestate. Le ragazze erano sempre tante e le sue idee sempre estreme, ma in casa era più tranquillo e con il passare del tempo anch’io e Nicola ci siamo calmati. Poi, come una giornata di sole dopo un lungo inverno piovoso, è arrivata Morena. Ce l’ha presentata una domenica pomeriggio. Morena è una ragazza incantevole, e non solo perché è molto carina, ma per il suo carattere determinato e dolce, forte e sensibile allo stesso tempo. Alberto l’ha conosciuta in una delle palestre dove lavorava e si sono fidanzati dopo pochi mesi. Morena mi è piaciuta sin da subito. È orfana di entrambi i genitori, mancati in un incidente quando lei era ancora una bambina, eppure è come se i suoi li portasse dentro. Li nomina spesso e sento molte volte che cita a esempio gli insegnamenti che le hanno lasciato i suoi genitori. È cresciuta con la nonna materna e seppure deve essere stata molto sola, è una ragazza solare e sorridente che ama la vita, sempre buona e gentile verso tutti. È difficile non volerle bene. Ecco, se avessi avuto una figlia femmina, io l’avrei voluta così, come Morena. Lei e Alberto sono andati a convivere ed è stato bello vedere il loro amore crescere. Alessandro e Gaia, i miei nipoti, sono arrivati nel giro di un paio d’anni e sono quanto di più bello la vita abbia dato a tutti noi. La magia si è rotta circa sei mesi fa, quando Morena mi ha confessato che Alberto la tradisce. L’ha già fatto una volta e lei lo ha perdonato, ma adesso, mi ha detto, non può più farlo perché Alberto deve crescere e imparare che se vuole essere amato, deve prima amare. L’ho abbracciata forte Morena, e mi è apparsa ancora più piccola di quanto in realtà sia. Ho capito cosa diceva e l’ho sentita vicina al mio cuore più che mai. Abbiamo pianto insieme. Ho provato a sentire la versione di Alberto e ho provato a farlo ragionare. Buttare via una famiglia in quel modo era una crudeltà verso i bambini e anche verso se stesso perché nessuno l’avrebbe mai amato come Morena.

Ma Alberto non ha sentito ragioni e urlando mi ha detto che lui aveva il diritto di vivere e che nessuno lo poteva tenere incatenato. La superficialità dei suoi ragionamenti mi ha colpito con la forza di un pugno, dritto alla bocca dello stomaco.

Alberto non ha mai nominato i suoi splendidi bambini, come se neanche gli appartenessero.

Allora ho pianto tutte le mie lacrime. Per il fallimento come madre e soprattutto perché non ho saputo insegnare a mio figlio i valori importanti della vita: la famiglia, l’onestà verso gli altri, la fedeltà, il rispetto degli impegni presi, la perseveranza. E ho preso la decisione più difficile della mia vita. Se Alberto voleva lasciare la sua famiglia non potevo impedirlo, ma io non avrei più voluto vederlo, né parlargli. Non avrei potuto accettare di fargli ancora una volta da paracadute. Io e Nicola abbiamo parlato con Morena e le abbiamo detto che noi ci saremmo sempre stati per i nipotini e per lei. E questo è quello che facciamo da sei mesi: aiutiamo Morena e per la prima volta dopo anni ci sentiamo bene, in pace. Morena ci tratta come due genitori ansiogeni, ci porta Alessandro e Gaia al mattino presto così li accompagniamo a scuola. Poi riprendiamo i bimbi al pomeriggio, prepariamo le merende e li riportiamo da lei. Con lo studio e grazie a degli ottimi collaboratori riusciamo ad avere tempo per i nostri nipotini. La domenica sono a pranzo a casa da noi. Siamo una vera famiglia. Abbiamo detto a Morena che se vorrà, potrà trovare un nuovo compagno, noi la comprenderemo, ma lei ci ha risposto di non pensarci proprio perché i bimbi la tengono già troppo occupata. In fondo so qual è la verità: lei aspetta Alberto, aspetta che torni. E in questo siamo ancora più unite, perché anch’io sono in attesa. Mio figlio farà tanti giri, per lui il sentiero della maturità è più lungo e tortuoso che per altri, ma poi verrà da noi e noi saremo qui ad aspettarlo. Noi siamo la sua famiglia.

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