Oggi è il mio compleanno, ho 38 anni e sono serena. Guardo la mia bambina che mi trotterella intorno giocando con la sua borsetta rosa piena di trucchi e mi meraviglia ogni volta il suo senso estetico, così spiccato a soli tre anni. Mia figlia è più della mia vita, lei è la mia rinascita. Grazie a lei e al suo papà sono uscita da un periodo senza luce, non saprei dire neanche quanto lungo, so solo che ero viva nel fisico ma morta nell’anima. Racconto la mia storia perché spero possa essere d’aiuto a qualcun altro e rappresentare una speranza per un nuovo inizio. La mia prima vita è finita il 14 ottobre del 1999 ad Amarillo in Texas. Io e Luca stavamo percorrendo la Route 66, strada che taglia a metà gli Stati Uniti. Era stato il nostro sogno da sempre, avevamo fantasticato e risparmiato per quel viaggio per tutti gli anni dell’Università. Ci era sembrato naturale farne la meta del nostro viaggio di nozze. Avevamo raggiunto in aereo New York, da lì in volo a Los Angeles e poi con un fuoristrada a noleggio via verso il deserto. Le foto scattate fino ad Amarillo mostrano due ragazzi felici e spensierati, pieni di vita ma io non ricordo quasi niente. Della me che ride all’obiettivo, dei miei pensieri, dei miei desideri per il futuro non ho memoria. Tutto è svanito in una manciata di secondi. Luca guidava ed io canticchiavo; una buca; la jeep va fuori strada; Luca sterza e la macchina si ferma su un cactus gigante. Io illesa, Luca fermo con lo sguardo vitreo. Alcune persone che ci seguivano in strada ci soccorrono ma non c’è niente da fare. Della corsa in ospedale, della chiamata al consolato, dell’attesa per l’arrivo dei miei genitori ho ricordi sfocati. Ricordo bene, però, la sensazione di straniamento, come se quello che accadeva intorno non stesse capitando a me, ma a un’altra persona. Un ronzio nelle orecchie faceva sì che le voci mi arrivassero ovattate, i tranquillanti mi sedavano i pensieri e i sonniferi mi portavano in un sonno senza sogni. Fino al ritorno in Italia non ho pianto, fino al funerale. Lì è esploso in petto un dolore insopportabile. Luca non c’era più. Non era naturale guardare la sua bara, lui doveva stare vicino a me, avevamo un sacco di cose da fare insieme, dovevamo sistemare la casa, dovevamo decidere i nomi che avrebbero avuto i nostri figli, dovevamo unire gli sforzi per far partire lo studio di architettura. Non era naturale che io fossi rimasta sola. Fuori faceva freddo, ma era niente in confronto al gelo che sentivo dentro. I miei genitori mi portarono a casa con loro. Sul divano in sala passavo il tempo tra sonno e veglia. Volevo tenere gli occhi chiusi e restare così per sempre, non pensare a niente. Aspettare che anche la mia vita avesse fine era il mio fine. Così avrei smesso di soffrire, così non sarei stata più sola. Da qualche parte Luca doveva essere ed io l’avrei ritrovato, non si può mica finire così! Senza una parola, senza lasciare un messaggio, senza motivo! Per una maledetta buca, in una maledetta strada senza asfalto di un paese lontano dove non saremmo tornati mai più. Perché non ero morta anch’io con lui? Perché a me era toccato restare? Luca mi mancava ogni secondo, mi mancavano i suoi sorrisi, mi mancavano le sue battute, mi mancava persino l’incazzatura mattutina che avevo quando tiravo fuori i calzini sporchi infilati sotto i cuscini del divano. Poi smettevo di pensare, nelle lacrime chiudevo gli occhi e il divano diventava la mia culla. Ferma immobile, in attesa del nulla. Vedevo i miei genitori disperati che si affannavano intorno, mi dispiaceva per loro ma non avevo la forza di rispondere alle loro domande, figuriamoci di uscire o chissà che altro. Ogni tanto arrivava qualche parente, qualche amico, ma non c’era niente e nessuno che mi scuoteva. Trascorse Natale e arrivò la primavera, io ero sempre sul divano. Un pomeriggio, nel dormiveglia, sento una bambina che gira intorno al divano con un secchiello di costruzioni. Lo svuota ed inizia a comporre una costruzione. Inizio a guardare con attenzione, ha uno strano modo di disporre i cubotti. Li prende, li misura, li gira, li sistema. Poi a metà costruzione, si gira e mi dice:<<Guarda, pian piano si comincia a vedere il profilo delle cose.>> Resto senza fiato, lo stomaco si contrae più forte che può e le parole mi esplodono nella testa. Sono le parole che ripeteva sempre Luca, sono quelle di un famoso architetto, sono le stesse che ci permettevano di non arrenderci davanti ai progetti più difficili che avevamo seguito. Erano un po’ il nostro mantra. Sorrido senza neanche volerlo. Ed in quel momento, nasce in me una speranza, forse piano piano, ritornando a vivere, ritroverò il profilo delle cose. Accarezzo Benedetta, così si chiama la figlia dell’amica di mia madre, e mi alzo dal divano, per la prima volta, dopo mesi. Non è stato facile ricominciare. Dallo studio mancavo da quasi un anno, tutti mi guardavano come un extraterrestre e sentivo che avevano pudore a rivolgersi a me. Eppure lì, a lavoro, dove ero stata con Luca, sentivo meno la sua mancanza. Mi rendevo conto che non sarebbe tornato più da quel viaggio, tuttavia la sensazione di calma, di riposo che traevo dal sistemare i nostri progetti, dal caratterizzare costruzioni secondo il nostro modo di vedere, mi ridava un senso come persona. Non ho nessuna certezza in merito, né nessuno potrà provarlo mai, eppure sento che Benedetta non è venuta da me per caso. Non è un angelo, è una bambina reale con la quale ho parlato altre volte, tuttavia il suo messaggio era diretto a me ed era speciale. Nel 2006 arriva nello studio un nuovo socio. Non ho lavorato subito con lui perché all’inizio si è occupato esclusivamente di interni, ma il suo cognome mi ha incuriosito. Si chiama Benedetto. Ci siamo scrutati per diversi mesi. Lui è molto diverso da Luca. E’ bruno, serio e posato. Non ha avuto nessuna fretta con me. Ha aspettato che mi abituassi all’idea di uscire con un altro uomo e, quando finalmente ho accettato, abbiamo parlato per tutta la sera di quello che era stato il mio viaggio di nozze. Era fermo ed ha ascoltato quello che avevo da dire. E per la prima volta ho raccontato la storia di Benedetta. Mi ha guardato, ha sorriso e ha detto che se i Benedetti mi portavano bene, era proprio l’uomo giusto per me. E’ vero, lui è l’uomo perfetto per me, ma non l’ho compreso subito. Dopo la nostra prima uscita, ho avuto una forte crisi depressiva. Mi sembrava di tradire Luca. Sentivo che Mario, questo il suo nome, mi piaceva, ma come potevo sciogliere il nodo con il quale avevo legato tutto il dolore che mi aveva invaso? E’ vero erano passati sette anni, mi dicevo, e oramai riuscivo a convivere con l’idea di essere vedova. Allora perché non riuscivo a lasciarmi andare? Il mio lavoro mi aiutava a vivere, ma sentivo che volevo qualcosa in più. Volevo essere amata di nuovo, ma non sapevo se fossi stata capace di ricambiare, anzi ero quasi certa che non ce l’avrei fatta. Avevo cancellato ogni ricordo dell’amore. Ma potevo dire una cosa del genere a Mario? Sarebbe stato ingiusto nei suoi confronti. Non riuscivo a decidere sul da farsi, ero combattuta. E Mario mi venne di nuovo incontro. Disse che non gli importava cosa gli potevo dare, l’importante era che ci provassi. E mi sono buttata, ci ho provato. Sapete il nodo non si è sciolto subito! Ecco se una donna sta male per un dolore, per un lutto, io gli auguro di trovare un uomo paziente. Secondo me, l’amore è anche tempo. Soprattutto lo è stato per me. Ho imparato ad apprezzare la serenità del mio uomo che mi calma nei momenti di sconforto. Ammiro la calma che mi infonde con la sua presenza solida. Amo il fatto che non è mai di fretta quando si parla della nostra storia. Mario ha saputo aspettare che il nodo di dolore si allentasse. E la cura dell’attesa ha funzionato. Adesso non riesco neanche ad immaginarmela una vita senza di lui. Io la chiamo la mia seconda vita e l’inizio l’ho individuato in una data speciale, una data che ci unisce e che ha sancito l’arrivo al mondo di una nuova vita, la nostra bambina. Li amo entrambi di una tenerezza e di un amore infinito. E sono serena, oggi a 38 anni, come mai avrei immaginato di essere. C’è sempre una speranza d’amore, basta prendersi il tempo giusto.
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