Ci sono parole che in alcune lingue hanno un senso ed in altre cambiano significato. La parola “compassione” è una di queste. Nelle lingue latine, quindi anche in italiano, viene associata alla pietà, alla pena che si prova per gli altri, mentre in tedesco o in polacco il termine viene utilizzato per definire la partecipazione ai sentimenti degli altri, siano essi di dolore, di gioia o di felicità. L’autore Milan Kundera nel suo libro più conosciuto descriveva la compassione come la telepatia delle emozioni. Ecco, io non so se è proprio quello che mi è capitato nella vita, ma ho avuto la gioia e il fardello allo stesso tempo di sperimentare la “con-passione”, di sentire la gioia e i dolori delle altre persone. Persone lontanissime fisicamente da me, eppure percepite vicine come se vivessero d’altra parte del pianerottolo. Adesso, vi racconto. Mi chiamo Laura e vivo a Roma. Circa venticinque anni fa, per quelle strane analogie che talvolta arrivano nella vita, ho conosciuto Huaycan. È iniziato tutto per caso. Alessandra, un’amica di un’amica che era in viaggio in Perù, aveva dato la disponibilità a fare una consegna ad un prete in una sperduta periferia della capitale. Arrivata a Huaycan, la situazione di quel lembo di montagna, arso dal sole, senza nessuna fonte d’acqua e nel completo abbandono da parte di tutta la società, l’ha così colpita che non ha proseguito il suo viaggio e vi si è fermata per un anno. La situazione politica e sociale del Perù negli anni Novanta era critica; il paese era in balia di continui attacchi terroristici che laceravano il paese e creavano caos e terrore nella popolazione. Ad Huaycan continuavano ad arrivare intere famiglie di contadini scappate dalle campagne e dalle montagne per sfuggire alla guerriglia scatenata dal gruppo paramilitare di Sendero Luminoso. La capitale in quegli anni non era in grado di accogliere tutti i profughi e man a mano che le persone si avvicinavano a Lima, cercavano di stabilirsi dove meglio potevano. Huaycan è nata così. L’ammasso di contadini che arrivavano da diverse zone del paese, che spesso non parlavano lo stesso dialetto e non erano in grado di comprendersi, l’assoluta mancanza di qualsiasi mezzo di sostentamento e di prospettiva futura, l’inospitalità del luogo hanno fatto sì che il disagio e il degrado sociale diventasse quotidiano. Nell’anno in cui la nostra amica è rimasta lì, ha costruito nel terreno di una parrocchia un piccolo centro di accoglienza dove sono state accolte alcune mamme single e il loro bambini. La società contadina peruviana è molto maschilista e, ancor oggi, seppur in maniera meno forte rispetto a trent’anni fa, le donne quando raggiungono una “certa” età vengono abbandonate dai mariti e “sostituite” con altre più giovani. Anche i bambini sono tenuti in scarsa considerazione, in quanto non producono reddito e risultano di peso alle famiglie che devono mantenerli. Come sostenere questa piccola realtà? Alessandra ha chiesto aiuto ai suoi contatti in Italia e ci siamo attivati. In quel periodo eravamo un gruppo di amici, con tempo a disposizione e tanta voglia di fare qualcosa di buono. Attraverso un tam-tam, abbiamo mosso tutti i canali a nostra diposizione. Abbiamo fatto e venduto marmellate, promosso spettacoli teatrali e collette, organizzato tornei di tennis e raccolte fondi. Tutto quanto ci è venuto in mente, l’abbiamo fatto e i risultati sono arrivati. Il centro accoglienza è diventato una realtà solida e abbiamo fondato l’associazione “Amici di Huaycan onlus” per sostenere economicamente dall’Italia quel presidio lontano. Io ne faccio parte sin dalla prima ora e sono la presidente dell’associazione. Col passare degli anni, il centro è diventato un punto di riferimento per gli abitanti di Huaycan e alcune delle donne che per prime sono state accolte e aiutate, sono diventate esse stesse operatrici da noi. Uno dei primi problemi che ci siamo trovati ad affrontare era quello della salute. I bambini morivano a decine in età scolare e le malattie avevano la meglio, complici il clima insalubre, molta polvere e la mancanza d’acqua. Abbiamo promosso delle campagne di prevenzione e, con molto fierezza, vi dico che finalmente dal 2007 tra i bambini che seguiamo non ci sono stati decessi per la tubercolosi. Forse dall’Italia questa informazione può sembrare banale, noi consideriamo la TBC non più un problema sanitario da decenni, eppure a Huaycan provoca ancora oggi vittime, specie tra i più piccoli. Un altro progetto di cui siamo fieri è quello nato per aiutare le madri “solteras” . La nostra “Casita” è un centro diurno che accoglie i bambini di genitori in difficoltà (in gran parte mamme single), in modo che possano andare a lavorare in tranquillità. Ai bambini offriamo doposcuola, laboratori, spazi per il gioco e la mensa. L’approccio che utilizziamo è di tipo cooperativo, cioè le famiglie sono chiamate a collaborare e pagano una piccolissima quota, simbolica, che però permette loro di sentire che stanno usufruendo di un servizio e non stanno ricevendo la carità. Oggi seguiamo circa sessanta bambini dai due ai sedici anni e diamo una mano anche a tutte le loro famiglie e alla comunità di cui fanno parte. Per fare un esempio, un piccolo intervento di microcredito, mirato, può svoltare la vita di un’intera famiglia e offrire una possibilità concreta e soprattutto speranza di futuro. Nei primi dieci anni, il mio aiuto alla comunità di Huaycan lo avevo dato dall’Italia, ma non ero mai andata in Perù. Poi ho avuto una crisi. Erano anni che seguivo la parte amministrativa e di raccolti fondi e iniziavo a sentire che il mio slancio si stava esaurendo. Allora prima di lasciare l’associazione, ho deciso di partire. Volevo andare a vedere sul posto cosa avevamo fatto di buono. Ho organizzato la famiglia, fatto tutte le raccomandazioni possibili a nonna e figli e sono andata. Da Lima, in taxi ho raggiunto la periferia. Quello che ho trovato, non è semplice da descrivere. Intorno a me la povertà era ovunque. L’ho già detto, lo so, ma è difficile immaginare con quanto poco le persone lì possano vivere. E poi c’era la situazione di degrado nella quale versavano certe famiglie che era davvero insostenibile. Quando interi nuclei familiari vivono ammassati in una casupola, anche volante ( sì, esistono baracche che si spostano da un terreno all’altro a secondo del vento e dell’ospitalità che viene offerta) allora la promiscuità può portare situazioni insostenibili e ad abusi. Queste realtà e tanti paradossi convivono a Huaycan. Eppure, allo stesso tempo, le donne e i bambini di un tempo, ormai giovani adulti, che erano cresciuti alla Casita erano grati e soprattutto felici di esser riusciti a “salvarsi” da una situazione che offriva loro poco o niente per affrontare la vita. Non portavano doni per ringraziarmi, ma mi facevano vedere quello che erano riusciti a raggiungere: un lavoro dignitoso, una giovane famiglia, le feste di compleanno che organizzano per i loro figli, di cui vanno fieri. Ci tenevano a mostrarmi che erano madri e padri affettuosi e rispettosi. Ecco, in quel viaggio è scattato dentro di me qualcosa, la “con-passione” che vi dicevo. Ho sentito la gioia e il dolore di queste persone ed ho toccato con mano cosa realmente di può fare. Sono tornate altre volte in Perù e trovo il tempo e le risorse per andare avanti con l’associazione. Questo anno per Natale stiamo raccogliendo fondi per stare ancora più vicino ai bambini di Huaycan, dove l’emergenza sanitaria ha inasprito il divario sociale e aumentato le difficoltà, soprattutto nell’accesso all’istruzione. Immaginate come funziona la didattica a distanza dove non arriva l’elettricità? Sul nostro sito www.amicidihuaycan.it potete trovare tutte le informazioni e sono a disposizione di tutti per qualsiasi indicazione. Quando penso a quanto c’è da fare per i bambini di Huaycan un po’ mi scoraggio, ma poi penso alle parole che sono il nostro motto “Porte aperte per chi bussa”, e capisco che la porta della Casita deve restare aperta, e vado avanti. Ancora.
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