Intrecci di vita – Storia di Jorida Dervishi – Marzo 2020

Jorida è una donna straordinaria e piena di energia. La sua storia conquista. E’ arrivata a Milano dall’Albania e ha dovuto imparare molte cose, oltre alla lingua. Così ha capito che poteva aiutare altri stranieri. Sopratutto le donne, perchè sono proprio le donne che trainano l’integrazione.

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Libro: Il giorno mangia la notte di Silvia Bottani

Il giorno mangia la notte

Ho letto questo libro a Marzo, in piena ondata di panico da pandemia. Tanto di notte ero sveglia, mi sono detta, impiego bene il tempo a leggere. Così ho notato la copertina di questo libro: una boxeur con i guantoni, la treccia e lo sguardo, duro, di sbieco, diretto verso un bersaglio.
Ho iniziato il libro e ho impiegato tempo per entrare nella storia, avevo la sensazione che i personaggi faticassero a emergere. Questo la prima notte.
La seconda notte è venuto fuori la descrizione di un personaggio, il classico ex milanese splendido  in penuria di soldi e affano di vita, che mi ha intrigato. Poi è arrivata la donna emigrata che a Milano è venuta per dare un futuro ai figli. E poi sono arrivati loro, i protagonisti. Entrambi poco indulgenti verso i lettori, vi avviso. Non si fanno amare subito, Naima e Giorgio. Ci vuole tempo per conoscerli e tempo per capire le asperità di entrambi. Però quando arriva quel vortice che li prende e li porta via, nonostante loro, il libro non vi lascerà più.
La terza notte l’ho trascorsa attaccata alle pagnie perchè dovevo sapere come andava a finire.
Una scrittura secca ha accompagnato bene i personaggi e mi è piaciuta molto. La Milano che fa da sfondo è feroce sia negli ambienti alto borghesi che in quelli meno abbienti ed è esattamente la direzione che, se non ci sarà un cambio culturale forte nel nostro paese, la città prenderà.
Ho solo qualche rammarico, ho avuto la sensazione che qualche personaggio andasse indagato di più. Ci sono come dei fili che restano in sospeso: il rapporto di Naima con il ragazzino down, il passaggio di Naima dall’amare una donna e un uomo senza nemmeno un cenno di approfondimento … Non vado avanti perchè non voglio dire troppo.
Il libro va letto non raccontato. E vi dico che ne vale la pena.

L’amore doma qualsiasi spirito selvaggio e lo rende migliore.

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LIBRO: I treni della felicità, storie di bambini in viaggio tra due Italie di Giovanni Rinaldi

Quest’anno mi ero prefissa di parlare esclusivamente di libri di autrici femminili e, mantenendo questa linea, ho parlato a gennaio scorso del libro di Viola Ardone – Il treno dei bambini. Però dopo qualche giorno ho scoperto che il libro della Ardone si ispirava ad un altro testo E’ pur vero che nelle premesse era segnalato chiaramente, ma sul momento non avevo dato importanza alla cosa; poi ho approfondito e ho scoperto “I treni della felicità, storie di bambini in viaggio tra due Italie” dello storico Giovanni Rinaldi e mi si è aperto un mondo.
Quindi mi trovo a derogare me stessa, ma per completezza del post precedente è necessario parlare del libro di Rinaldi.

I treni della felicità, storie di bambini in viaggio tra due Italie di Giovanni Rinaldi parla di una storia accaduta tanti anni fa eppure così vicina a ben pensarci.

Alcune donne dell’UDI, l’Unione Donne Italiane, organizzarono nel primissimo dopoguerra, dal 1946 al 1950 circa, lo spostamento di tantissimi bambini che erano in condizioni miserimme, sopratutto dal Sud d’Italia, verso alcune località dell’Emilia e delle Marche, in particolare. I bambini furono accolti da famiglie che poterono curarli e sostenerli per qualche mese. Questo fu l’inizio di un vero esodo che portò circa 70.000 bambini dalle città più colpite dai bombardimenti e dalla povertà a spostarsi verso nord.

Perchè leggere il libro oggi?

Nei fatti il libro parla di fatti accaduti più di 70 anni fa eppure è qualcosa di più di un libro storico. Direi che è proprio DA LEGGERE IN QUESTO PERIODO di EMERGENZA perchè carica le persone di grande speranza per il futuro. Nel momento più buio della storia italiana recente, il primissimo dopoguerra, quando le città e le campagne erano devastate dai bombardamenti, dalla povertà, dalla fame, dall’odio sociale, alcune DONNE (scritto in maiuscolo apposta) pensarono ad una soluzione per aiutare gli altri, in particolare bambini. E non immaginate che le famiglie che accolsero i bambini fossero benestanti. Niente affatto. Si trattava di famiglie contadine e operaie che aiutavano altre persone, semplicemente perchè era giusto farlo. 
Il Partito Comunista fu il grande collettore di quei valori di giustizia sociale e libertà che animarono quel periodo d’Italia e, purchè se ne dica, resta con tutti i suoi difetti l’UNICO partito che ha dato voce agli umili, agli operai, alle donne, a chi voce non l’aveva mai avuta.
Le donne, gli uomini, le famiglie intere che accolsero “altre bocche da sfamare” lo fecero perchè credevano in un ideale che era quello della “cominità aperta che condivide tutto, dove ciascuno possa essere e dare il meglio  per il bene comune“. E’ un’utopia, mi rendo conto, eppure leggendo il libro di Giovanni si comprende che tutto ciò, senza grande rumore, è già avvenuto.
Amerete i bambini, poi adulti, che passano attraverso le testimonianze raccolte da Rinaldi. Sono di grande ispirazione per questo momento difficile. Ce l’hanno fatta con l’aiuto degli altri e, in questo modo, ce la faremo anche noi oggi. Solo insieme, con l’aiuto di tutti si superano le emergenze e si creano catene d’amore che non spezzeranno più.

Infine, un grande ringraziamento al Prof. Rinaldi per la sua grande e silenziosa opera nel far emergere la grande lezione che le DONNE del Dopoguerra seppero darci. Ne abbiamo ancora un grande bisogno.
E chiudo ricordando il Teorema del Sociologo Quarantelli citato qui nella rubrica La Prima Cosa Bella di Gabriele Romagnoli:

Gli eventi catastrofici tirano fuori dall’umanità il meglio. Non è vero che si reagisca istericamente. La solidarietà prevale sul conflitto. La società diventa più democratica. Svaniscono, almeno temporaneamente, le diseguaglianze e le distinzioni di classe.

Buona Lettura a tutti. Qui per chi vuole trovate il libro

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Danzo con il fuoco – Storia di Maura Chiulli – Gennaio 2020

La storia di Maura è conoscenza di sè e ricerca della propria strada e dei propri limiti. Per tutti coloro che sono ancora in cammino …

Sul nr. 6 di Confidenze . BUONA LETTURA

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L’energia dell’amore, storia di Rosario Pellecchia – BLOG Confidenze

“L’energia dell’amore” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 52 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate della settimana dalle lettrici e lettori.

Ve la riproponiamo sul blog QUI

Sono un deejay e ho mille progetti, la vita ha esaudito molti dei miei sogni di ragazzo. Nessuno però è immune dal dolore. Il mio ha a che fare con la malattia di mia mamma, che le ruba i ricordi. Allora mi affido al linguaggio del cuore
IMG_4433ciascuno di noi accade qualcosa che all’improvviso cambia per sempre il corso degli eventi: può essere una piccola cosa o una vicenda oggettivamente sconvolgente. La mia vita non fu più la stessa da quel pomeriggio in cui per la prima volta sentii le voci e la musica uscire da una scatoletta di legno. Mi dissero che quella cosa magica si chiamava radio e ne rimasi letteralmente folgorato: mi chiamo Rosario, anche se tutti mi chiamano Ross, e questa è la mia storia. Avevo 15 anni quando provai a diventare una di quelle voci: mi proposi alla radio della mia città, Castellammare di Stabia, con una faccia tosta che ancora oggi mi chiedo da dove fosse saltata fuori. Forse fu proprio l’innocenza della mia giovane età a disarmarli, così mi diedero un piccolo spazio. Mi dicevano che ero bravo per essere un principiante, e allora presi coraggio, cercando di imparare in fretta tutti i segreti di quel mestiere: due anni dopo passai a una radio più grande, e quando ne compii 18 mandai il provino a Radio Kiss Kiss di Napoli, la radio più importante del Sud Italia, nonché una delle più ascoltate a livello nazionale. Ero convinto che non mi avrebbero mai richiamato. Invece rimasi lì fino al 1996, anno in cui ricevetti un’altra chiamata, da un’emittente ancora più importante: Radio 105! Il trasferimento a Milano fu organizzato in fretta e furia, lasciai i miei genitori, due fratelli, una sorella e tanti amici, proiettato verso il futuro che desideravo. Da allora ho fatto davvero tutto quello che si può fare davanti a un microfono: programmi al mattino presto, a notte fonda, in diretta da New York, dove ho vissuto per sei mesi. Nel 2001 iniziai una collaborazione con Tony Severo, anche lui conduttore radiofonico. Insieme ci inventammo un format che metteva insieme intrattenimento leggero, interviste a personaggi famosi provenienti da diversi settori della vita pubblica e interventi degli ascoltatori: quel programma è ancora in onda, stabilmente e con grandi risultati di ascolto, ogni mattina tra le 10 e le 12.

 

A9343788In mezzo alle migliaia di ore di diretta ho fatto tante altre cose: cinque album insieme a Fabrizio Fiore, per il quale scrivo i testi in inglese e canto, collaborazioni con riviste, programmi televisivi e, di recente, un libro, uscito a maggio di quest’anno. Si intitola Solo per vederti felice e racconta una storia parzialmente autobiografica: quella della malattia di mia madre, alla quale quattro anni fa è stata diagnosticata la demenza senile.

I primi sintomi sono comparsi quando si è risvegliata dall’anestesia dopo un’operazione al femore, fratturato in conseguenza di una caduta: non appena aprì gli occhi apparve subito chiaro a tutti noi che qualcosa nella testa di mia madre si era rotto. Era confusa, agitata, incapace di ragionare in maniera logica. Qualche anno prima anche mio padre aveva subìto la stessa operazione, e purtroppo era mancato due settimane dopo. La vita, insomma, per quanto dolce possa essere, per quanto possa regalarti ciò che desideri ed esaudire i tuoi sogni di ragazzo, a un certo punto ti chiede il conto: è inevitabile, nessuno è immune dal dolore. Un dolore che ho cercato di lenire raccontando questa vicenda nel mio romanzo, nel quale alla realtà aggiungo elementi di finzione: il protagonista cerca di restituire il sorriso a sua madre attraverso un’idea folle e romantica che mette in pratica nel mese che è “costretto” a trascorrere con lei. Una strategia che si basa sulle uniche armi che il personaggio ha a disposizione: la sua fantasia e l’amore che prova dei confronti di sua madre, persa nell’incubo di quella terribile malattia. Raccontare questa storia mi è servito a esorcizzarne la sofferenza, e il grande successo del libro testimonia che migliaia di lettori hanno trovato lo stesso conforto tra quelle pagine. Quanto alla mia mamma, nella realtà, le cose non vanno benissimo: passerò con lei il Natale, ma inutile dire che non sarà lo stesso di anni fa. Nella terra in cui sono nato e cresciuto questa festa assume i contorni di una vera e propria epopea, un Carnevale di Rio fatto di abbracci, ricongiungimenti familiari, tavolate chilometriche, tombolate con le bucce di mandarino a coprire i numeri sulle cartelle. Soprattutto, tantissime cose buone da mangiare, dal cenone della vigilia, tradizionalmente a base di pesce, al pranzo di Natale, più a tema carne, al cenone di Capodanno: un tripudio di spaghetti alle vongole, baccalà, capitone, ragù, insalata di rinforzo, zeppole varie, mustaccioli e struffoli. Un flusso continuo di leccornie che mi fanno tornare bambino, complici certi rituali che sono sopravvissuti nonostante l’inesorabile passare degli anni: per esempio, gli zampognari al mattino presto annunciano alla città che il Natale è alle porte. Per non parlare del presepe, che ogni papà prepara con i figli usando la colla di pesce e la carta di giornale.

Tuttavia, le cose cambiano e, quando diventi a tua volta un adulto, il Natale, purtroppo, non è più lo stesso. Mio papà è da qualche parte, lassù: me lo immagino come nello spot del caffè che insegna a qualche angelo la procedura per allestire il presepe. Mia mamma, per fortuna, è ancora qui, ma il suo ruolo è cambiato: una volta era lei l’instancabile deus ex machina del Natale, capace di cucinare per decine di parenti con una forza d’animo e uno spirito di organizzazione degni del più esperto e tenace degli chef. Oggi quella donna ha lasciato il posto a una persona diversa, minata nel corpo e nello spirito da una malattia inesorabile che la sta spegnendo poco a poco. Quando hai una mamma in queste condizioni, passi il tempo nell’angosciante attesa che, quando la rivedrai, ti farà la più terribile delle domande, quella che nessuna madre dovrebbe mai porre a suo figlio: «Chi sei?». È solo questione di tempo, potrebbe succedere da un momento all’altro, forse proprio questo Natale. Eppure sono sicuro che anche quest’anno, quando finalmente arriverò a casa il pomeriggio della vigilia, l’abbraccerò, le farò una carezza, la guarderò negli occhi e, nonostante tutto, ritroverò un barlume di quello sguardo dolce e rassicurante che mi faceva sentire il figlio più amato e fortunato del mondo. Perché per quanto i ricordi possano svanire, portandosi via pezzi di vita, esperienze, giorni passati insieme, a tratti l’identità stessa di un essere umano, c’è un’energia che è più forte di tutto questo. Quell’energia si chiama amore.

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Libro: Il treno dei bambini di Viola Ardone

Un romanzo intenso e coinvolgente con una seconda parte strepitosa.

I treni della felicità furono un’iniziativa di solidarietà nata nel 1946 da un’intuizione di Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana milanese rientrata dal campo di Ravensbrük. Milano era una città affamata e distrutta dai bombardamenti, Teresa Noce con l’aiuto di quello che restava dell’Unione Donne,  ottenne che diversi bambini milanese venissero ospitati da famiglie campagnole,per lo più della provincia di Reggio Emilia che si fossero rese disponibili.  In questo modo, seppur lontani dagli affetti familiari, ai bambini perlomeno il cibo per l’inverno sarebbe stato garantito. L’operazione ebbe così tanto successo che l’iniziativa si estese anche ai bambini del Sud e fino a metà degli anni ’50 circa 70.000 bambini vennero ospitati, curati e mandati a scuola grazie a tante famiglie di comunisti che misero a disposizione quello che avevano per SOLIDARIETÀ. (Link per ulteriori info www.anpi.it/articoli/636/1946-i-bimbi-dei-treni-della-felicita)

Il libro di Viola Ardone ripercorre questa toria semisconosciuta e dimenticata della nostra Italia migliore e, attraverso Amerigo Speranza, un bambino di 7 anni, ci accompagna su un treno che parte da Napoli e arriva a Modena.

La voce di Amerigo, scugnizzo napoletano che ha alle spalle una guerra, bombardamenti, lutti e abbandono è delicata e spudorata allo stesso tempo.  Lo si ama subito Amerigo.  Il candore e la furbizia non lo lasciano mai, gli occorrono per sopravvivere in un vicolo di Napoli dal quale non si vede granché di quello che c’è fuori e dove anche i sogni sono inutili perché tanto anche se si avverano non è nei bassi di Napoli che ciò accade. Eppure nonostante una realtà durissima, Amerigo sa cos’è l’amore perché a modo suo la madre Antonietta lo difende e lo ama con tutta se stessa. Questo è il motivo per cui accetta l’invito dei comunisti e lo fa salire su quel treno. Amerigo arriverà a Modena e incontrerà i suoi sogni e non se ne distacchera’ più.

Non racconto altro, non è necessario. Dico solo che Amerigo adulto, la seconda parte del libro, mi ha profondamente commosso. Mirabile prova di letteratura, la seconda parte, per me sfiora la perfezione per un romanzo.

Ho solo due crucci sulla prima parte;

1. l’autrice offre un’immagine quasi “perfetta” della famiglia modenese che ospita Amerigo. Siamo nel primissimo dopoguerra e c’è troppo cibo in quella casa; in quelle campagne la guerra civile per la liberazione era stata combattuta metro per metro e aveva lasciato divisioni e ferite che certamente non rimargirarono da un giorno all’altro. L’autrice non è riuscita a cogliere il contesto politico e sociale entro i quali quella ospitalità è avvenuta. Troppa dolce la descrizione della famiglia e della società che accoglie i bambini.  Forse l’intento non era quello di una disamina della situazione della provincia emiliana nel primissimo dopoguerra, ma ignorare del tutto quel momento storico non offre una dimensione importante per comprendere cosa sia stato il fenomeno dei treni della felicità.  Anche il sommo sforzo che quelle famiglie compirono in un momento drammatico dell’Italia in nome di un ideale, di una valore condiviso da quasi tutti. Mi dispiace perché se Viola Ardone avesse fatto questo ulteriore sforzo il suo romanzo sarebbe stato perfetto.

2 – La dolcezza con la quale viene dipinta la famiglia che ospita il bambino, talvolta si riverbera anche in qualche pensiero del piccolo Amerigo.  Ed anche qui il romanzo sfugge un po’ all’autrice che per eccesso di attenzione verso il suo protagonista perde quella linearità necessaria che aiuta a non superare il limite oltre il quale la storia vira verso il barocco delle descrizioni.

 

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Storia di MIKI FORMISANO – Oltre le sembianze ( Ottobre 2019 )

La storia di MIKI sul r. 43 di Confidenze – Ottobre 2019 – è stata la storia più votata dsul web. La potete rileggere sul blog di CONFIDENZE 

Eccola:

Una delle cose che mi piace più fare è litigare con la mia compagna. Sapete quelle liti che si basano su niente, tipo: «Miki hai lasciato ancora il tappo del dentifricio aperto?». Io rispondo no con voce ferma, ma sicuramente l’ho fatto, mi dimentico sempre di chiuderlo dopo aver lavato i denti. Lei mette il muso poi io faccio una battuta, lei ride e tutto passa. Ecco, essere una coppia, condividere le abitudini quotidiane, sapere che la mattina ti svegli e che lei ci sarà, è qualcosa di straordinario. A tanti potrebbe addirittura apparire una banalità, ma per me è una fonte inesauribile di stupore. Ogni volta al solo pensarci sono scosso da brividi di gioia. Forse perché per arrivare dove sono, la strada è stata lunga, difficilissima.

Forse perché oggi sono quello che ho sempre voluto essere e finalmente la mia vita “fuori” coincide con quella che ho immaginato dentro di me.

Oggi sono Miki, ho 55 anni e sono un uomo anche per il mondo e la società, ma non è stato sempre così. Quando sono nata ero Michela, una bambina. Già quando avevo cinque anni ero il classico maschiaccio: giocavo, correvo, saltavo senza sosta. Per me era un problema mettere la gonna, la mia eccessiva vivacità insieme a un disagio interiore al quale non sapevo dare un nome, mi portava a impormi sugli altri e a essere a tratti aggressiva se non addirittura violenta. Questo mio atteggiamento, in breve, mi fece diventare il capro espiatorio di qualsiasi cosa accadeva intorno a me, anche di quelle con le quali non c’entravo niente. Se a scuola mancava una merendina da qualche banco, di sicuro ero stata io a prenderla. Se qualcuno faceva a botte e io ero nei paraggi, era colpa mia. Avere tutti contro, però, esasperava i miei comportamenti. Più mi dicevano che ero indisciplinata e più mi arrabbiavo. Era come se da me tutti si aspettassero solo guai e guai e problemi erano quelli che io davo. Poi è arrivata l’adolescenza e con essa i cambiamenti del corpo. All’improvviso mi sono ritrovata con un seno da nascondere e tutti gli annessi del caso. Quando mi guardavo non potevo credere di essere io quell’immagine riflessa nello specchio. L’unico conforto in quel periodo è stata una suora che a scuola mi difendeva dalla cattiveria gratuita degli altri. Lei aveva compreso il tormento che mi portavo dentro e non mi guardava con sguardo severo o di compatimento come facevano tanti. Per lei ero una persona che aveva bisogno di essere amata per quello che era. A casa le cose andavano così così. In famiglia, specie nel sud Italia, quando avevi un figlio o una figlia con “quel problema” facevi finta che il problema non esistesse e la mia famiglia non faceva eccezione.

Ora da adulto comprendo il loro disagio e non ce l’ho con nessuno. Giudicare oggi sarebbe semplice, allora si faceva quello che era possibile fare e per me di soluzioni non ce n’erano. Ero incastrato in un corpo che mi era completamente estraneo. Ero un uomo in un corpo di donna. L’unica via che mi restava per urlare la mia rabbia per questa ingiustizia era ribellarmi a tutto ciò che rappresentava la normalità. Se non potevo essere quello che volevo, allora non avrei rispettato neanche le regole della quotidianità che valevano per tutti gli altri. Avevo solo voglia di spaccare tutto, di infrangere qualsiasi norma possibile. Così è iniziata la mia discesa agli inferi nel mondo della droga. Gli anni Ottanta erano gli anni dell’eroina e arrivarci è stato molto più semplice di quanto immaginassi.

 

Vivevo ai margini della società e quando si è in certi contesti si smarrisce il senso etico, non si comprende più la differenza tra ciò che è bene e ciò che è male. L’unica cosa che mi ha aiutato è stato il fatto di  non essere cacciato di casa e avere comunque un punto di riferimento, una famiglia. Quando è arrivato il primo arresto a seguito di alcuni reati commessi, ho perso anche quell’unico appiglio. In carcere essere tossicodipendente è un’ulteriore condanna che ti espone a qualsiasi sopruso. Lì ho conosciuto gente di tutti i tipi. Una cosa però è certa: se si può uscire dal tunnel della droga, non è in carcere che questo avviene. Me la sono cavata con l’unica carta che conoscevo, mi sono imposto con la forza, ma non tutti vi riuscivano e sopravvivere ogni giorno era dura. Allora nella mia vita c’era Anna e, nonostante il carcere, l’ho amata e difesa finché ha pagato con la vita i comportamenti a rischio ai quali ci si poteva esporre nella condizione di tossicodipendenza: scambi di siringhe o rapporti sessuali non protetti. Nel frattempo, uscivo e rientravo dal carcere perché i conti con la giustizia erano lenti, ma inesorabili e andavano pagati. Mio padre e mia madre mi accoglievano come potevano e cercavano di darmi consigli, ma la rabbia che avevo dentro era incontenibile. Poi quando credevo che la mia vita fosse tutta a rotoli, ho avuto la batosta più dura di tutte. A metà degli anni Ottanta, la Sanità pubblica iniziò a fare dei prelievi di sangue su particolari fasce di popolazione per capire la diffusione dell’Aids. La malattia era misconosciuta e allora si pensava che fosse esclusivamente legata alla comunità gay e dei tossicodipendenti. Dai controlli risultai sieropositivo. Nel 1985 questo significava morire.

 

Le cure erano pochissime e costose e quello che si sapeva sulla malattia era ancora meno. Nel mio caso una siringa utilizzata insieme ad altri per iniettarmi eroina deve aver veicolato il virus. La notizia mi ha devastato. Già mi sentivo emarginato per la mia identità sessuale, adesso diventavo un reietto. Anche in casa era diventato difficile stare. Bere un bicchiere d’acqua o andare in bagno era per mia madre, preoccupata per i miei fratelli e sorelle, una fonte di immensa inquietudine. Non so come, però sono riuscito ad andare avanti. Poco dopo Tonia, la mia migliore amica, si è ritrovata in ospedale. Anche per lei la condanna sono stati i comportamenti a rischio avuti nel periodo della tossicodipendenza. Una complicazione al fegato la stava divorando.

Tonia è stata sin dall’infanzia la mia migliore amica e, anche se oggi non c’è più, lo resterà per sempre. La sua malattia era insopportabile, non volevo che se ne andasse, ma non c’era nulla che si potesse fare, purtroppo.

Al capezzale di Tonia ho conosciuto sua cugina, l’unica parente che venisse a darle conforto. Quando l’ho vista, ho avuto un colpo al cuore. Era lei. Marilena. La nostra storia è iniziata senza che né io né lei l’avessimo preventivato o solo voluto e mi ha donato una forza straordinaria. Un amore così forte che mi ha portato a scegliere la vita, a comprendere il mio disagio interiore.

Marilena era al di fuori di qualsiasi giro da me frequentato fino ad allora ed è andata oltre le apparenze, mi ha amato come persona. Lei è stata la mia occasione per riprendermi in mano la vita. E così con uno sforzo enorme di volontà, ho provato a risalire lentamente la china. È stata dura e non avevo certezze per il futuro, ma sapevo che non volevo tornare indietro e, soprattutto, che volevo provare a vivere e ad amare essendo finalmente riamato. La via per noi è stata lunga, io avevo la mia vita da riprendermi e lei aveva nodi familiari che doveva prima sciogliere. Ci siamo presi tempo e siamo andati avanti, finché non siamo riusciti a vivere finalmente insieme. Nel frattempo, grazie ai primi gruppi sul web, ho iniziato ad avere contatti con varie persone che avevano già iniziato il percorso per cambiare genere. Gli incontri che sono seguiti mi hanno aperto un mondo di informazioni e sostegno, se volevo potevo diventare davvero Michele. Ci ho provato, non avevo altra scelta.

 

Avevo lasciato alle spalle la droga, la rabbia, il disagio di essere diverso, la paura di amare, volevo, anzi dovevo lasciare alle spalle anche Michela. Ho iniziato il percorso di adeguamento di genere e oggi sono Michele, per tutti Miki, il nomignolo con il quale mi conoscono. Ho percorso chilometri per arrivare dove sono e ho deciso che tutta questa strada, questa fatica, la voglio dedicare agli altri. Oggi sono presidente di Cest, Centro per la salute dei trans che ha sede a Taranto, la mia città. È un’associazione che ha un approccio innovativo nella presa in carico delle persone transgender. Offriamo sostegno e informazioni anche online in modo da poter raggiungere anche le persone fisicamente più lontane geograficamente. La disforia di genere è un tema ancora di nicchia e l’argomento della salute dei transgender lo è ancora di più. Nella fase di transizione, quando il corpo è già adeguato mentre i documenti riportano ancora i vecchi dati anagrafici, i problemi possono essere quotidiani.

Tutti gli operatori sanitari dovrebbero essere preparati ad accogliere la persona per le necessità legate alla salute, mentre spesso ci si ritrova davanti sguardi inquisitori e pregiudizievoli e questo è uno dei fattori che allontanano molte persone transgender dalla prevenzione e dal prendersi cura di sé. Una delle mie battaglie è fornire strumenti alla mia comunità e alla società in generale per superare queste barriere. Il diritto alla salute è sacrosanto per ogni cittadino a prescindere dall’orientamento sessuale o identità di genere. Non so se ce la farò, ma ci provo.

11 Storia di Miki Formisano Ottobre 2019

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Storia di Stefania D’Agostino – Settembre 2019

Sul nr. 41 di Confidenze in edicola dal 01 ottobre 2019 c’è Stefania D’Agostino. Leggete la sua storia di forza e caparbietà per la vita.

 

“Vinco io, anche questa volta vinco io.”

 

Mi chiamo Stefania, ho 48 anni e sono innamorata della vita. Se qualcuno mi chiedesse la frase che più mi rappresenta, utilizzerei esattamente queste parole: amo la vita che per me significa movimento. Sono sempre stata una persona sportiva, energica e solare. Soprattutto sportiva, direi. Sin da piccolissima nuotavo e mi allenavo tutti i giorni tanto che la piscina era la mia seconda casa.  Amavo anche sciare, prendevo la prima e l’ultima funivia. Non c’era pista in ombra o ghiacciata che mi spingesse a rientrare prima, sciavo fino all’ultimo raggio di sole disponibile. Andavo a scuola con i pattini a rotelle. Al parco a giocare a hockey o a football americano. Equitazione durante il weekend. Al lavoro in bici. A stare ferma non ci riuscivo proprio, ogni cosa che facevo era un’occasione per muovermi. Poi con l’amore, nel 2002 è arrivata la gioia di diventare madre e la vita mi ha donato Isabella. I primi due anni con la mia bambina sono stati fantastici, unici. Poi è accaduto qualcosa. Ho iniziato ad essere stanca. Ero uno stato che non mi apparteneva, fino allora ero stata sempre elettrica, intuivo che c’era qualcosa che non andava. Quando ho iniziato ad avere la febbre, ho fatto tutti gli esami utili e l’esito era da togliere il fiato. Mi hanno diagnosticato la leucemia mieloide cronica. La mia Isabellina aveva 2 anni e 1 mese ed io avevo la leucemia. Ero  paralizzata dal terrore e sentivo che il mio corpo cadeva a pezzi. In mille pezzi. E’ iniziata la trafila di esami, visite mediche, cure e viaggi per trovare l’istituto migliore che potesse aiutarmi. Ho peregrinato in diversi ospedali  finché non sono arrivata a Bologna. Lì ho trovato un dottore che, oltre ad essere un valido medico, è una persona con un grande cuore e, oggi, posso dirlo anche un caro amico. Nel marzo 2004 ho iniziato la cura con un nuovo farmaco. Le strade in salita mi sono sempre piaciute, amo le sfide, ma la montagna che mi si parava davanti era enorme, il mio personale  Everest, e ce la dovevo fare. Era una sfida che volevo vincere con tutta me stessa. Non sapevo se la mia forza sarebbe bastata, purtroppo per alcuni meno fortunati non basta, ma ci dovevo provare fino all’ultimo. Ogni mattina guardavo la mia bambina e mi caricavo di energia per trascorrere la giornata. Non potevo abbandonarla, non potevo lasciarmi andare. Sono stati tre anni durissimi. La mia vita, e anche quella di chi mi era vicino, era radicalmente cambiata. Il mio corpo mi era diventato estraneo. Tremavo di freddo anche d’estate, la luce del sole mi feriva gli occhi, lo stomaco si ribellava. Avrei voluto reagire come avevo sempre fatto, sfogandomi col movimento, ma era diventato impossibile. Facevo dei tentativi, ma la stanchezza cronica prevaleva su tutto. Sono dovuti trascorrere altri quattro anni per poter sentire le parole “magiche” pronunciate dal mio dottore “sospendiamo la cura, la leucemia è domata”. Perché la leucemia si doma, ci si può vivere insieme, ma non si può ancora sconfiggere con le attuali conoscenze mediche. Piano piano i crampi e l’eterna stanchezza sono spariti, le unghie hanno ripreso a crescere normalmente, i cerchi neri da malata cronica sono andati lentamente sbiadendo e i capelli si sono ricompattati in una criniera. Sono tornata ad essere io, a riconoscermi per davvero. La mia Isabella è diventata nel frattempo una bambina bella e atletica. Guardandola mentre si allena per la sua prima gara di triathlon ho sentito crescere in me, oltre alla voglia di riprendere a fare sport, anche la possibilità di farcela. Non so ser per le altre persone è lo stesso, ma per me muovermi è un’esigenza vitale. Ho bisogno di sentire il sangue che pulsa nelle vene, ho bisogno di una sfida, di un limite da superare. Non è come pensano in tanti una sfida per arrivare prima, la prova più importante è quella che mi permette di superare il mio personale limite raggiunto nella corsa, nella nuotata, nella sciata precedente. La mia vita riprende. Ritrovo stabilità, forza, coraggio. Fino a dicembre 2015, quando mi diagnosticano un carcinoma al seno destro maligno. Mi crolla di nuovo il mondo addosso, ma stavolta mi sale in corpo, oltre ad una paura folle, anche una rabbia incontenibile e la rabbia il motore con il quale combatto questa nuova battaglia. Mia figlia e la mia dolcissima cagnolina sono le mie alleate. Ogni giorno mi ripeto come un mio personale mantra  che “la vita è un opportunità, non voglio sprecarla, non voglio buttarla, devo reagire”. E supero anche questo. Dopo i tempi di recupero, riprendo il triathlon, il mio nuovo amore. Nuoto, bici e corsa a piedi tutto di filato, sono i miei nuovi amici e i traguardi da raggiungere. Mi sento viva. Sono io, non posso fermarmi. Prima dell’operazione al seno avevo dato la mia parola alla squadra che avrei dato il mio contributo per la staffetta nel nuoto e, senza dire a nessuno dell’operazione subita, dopo pochi mesi mi butto a capofitto negli allenamenti. Quella staffetta era il mio obiettivo, e se c’è una cosa che ho imparato in questi anni, è che non bisogna mai perdere gli obiettivi: sono il motore di tutto, e senza quelli la vita si ferma. La differenza però stavolta la fanno le mie compagne di corso. Le trovo ad ogni allenamento e sono sempre pronte a sostenermi, a spronarmi e sopra ogni cosa e a credere in me come io credo in loro. Lo sport è unione e per me questo è il valore più alto che ci possa essere. Insieme  si possono traguardare risultati insperati che da soli sarebbe quasi impossibile raggiungere. Sull’onda dell’entusiasmo per la “nuova guarigione” decido di provarci e mi butto a capofitto nel mio primo “ironman” a staffetta. Io nuoto, poi passo il testimone alla compagna che corre in bici che, a sua volta, lo passa a quella che corre. Con le mie due compagne di viaggio dobbiamo allenarci per completare quattro chilometri di nuoto, centottanta chilometri in bicicletta e quarantadue chilometri di corsa. Ecco cos’è un ironman. Una sfida competitiva, una prova dove vince chi ha contemporaneamente  fiato e testa, oltre ad un’estrema fiducia nelle altre compagne di viaggio. E io ci voglio provare. La gara si svolge a Maastricht, la città dove è nata e cresciuta mia madre. Le mie zie sono lì e fanno il tifo per me. Quando sento l’inno Olandese torno indietro nel tempo a quando ero piccola e inizio a piangere. Poi il gong da il via alla competizione e piango. Un fiume di lacrime nostalgiche, incredule e piene di felicità che fanno scorrere via tutta la disperazione, la rabbia, l’angoscia accumulata in tutti questi anni. Sono solo felice. Viva. Dopo Maastricht, segue la gara di Francoforte, un full ironman, la gara più impegnativa che ci sia. Devo fare tutto da sola, nuoto, bici e corsa. Sola con la mia testa e la mia anima. Gli allenamenti sono massacranti, ma quando hai attraversato il cerchio di fuoco della leucemia e del cancro, le cose appaiono sotto un’altra luce. Anche la stanchezza che ti toglie il fiato la sento come positiva. Le mia bambina  e la mia cagnolina mi seguono d casa. In tanti,  familiari e amici, mi seguono attraverso una app creata apposta per la gara. Non sono sola. Ho un sorriso infinito per tutta la gara, di quei sorrisi che non sai spiegare e che non puoi trattenere. Ho voglia di vivere, di riscatto, di passione, ho su le ali della vittoria e della felicità. E poi vedo il tappeto rosso dell’arrivo. L’urlo liberatorio mi rimbomba ancora nelle orecchie e mi libera per sempre. Dopo la gara, ho rotto l’ultimo muro che mi separava dalla completa liberazione dalle malattie, ho raccontato la mia storia. Alle mie amiche della squadra, ai miei colleghi, a chiunque voglia ascoltare. Il grosso fardello che avevo dentro da ben 14 anni mi è finalmente scivolato dalle spalle. Adesso sono guarita. Sono viva.

10 - Storia di Stefania D'Agostino 1

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Storia di Aromi e Profumi con Mauro Lorenzi – Agosto 2019

Su #Confidenze la storia di @maurolorenzi_profumi tra #essenze #profumidinicchia e #scelte che cambiano la vita. #SeptimontiumII #amore #odori #terra #aria #fuoco #acqua #sale

 

9- Storia di Mauro lorenzi - Agosto 2019_Pagina_1 9- Storia di Mauro lorenzi - Agosto 2019_Pagina_2 9- Storia di Mauro lorenzi - Agosto 2019_Pagina_3

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Dalle Hawaii alla Sicilia – Storia di Richard Ralya

Sul numero 33 di Confidenze, la storia di Richard Ralya.

Dopo aver vissuto in tutto il mondo, trova “casa” in Sicilia, a Graniti. Sul BLOG di Confidenze trovate la sua storia a questo LINK .

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