23 Novembre 1980

Oggi …  32 anni! 


Non voglio fare commenti sulla mancata ricostruzione ecc.ecc.ecc.  quella è sotto gli occhi di tutti non appena ci si addentra nell’entroterra della Campania e della Basilicata…. Non voglio neanche pensare al male “umano” in termine di corruzione e malapolitica con montagne di miliardi senza controllo piovuti sulla mia Terra  …

Niente di tutto questo… oggi solo ricordi. Precisi come possono essere solo quelli delle tragedie che cambiano il mondo che ti circonda …

Domenica sera di Novembre … mamma stira, nonna ciaccola, papà fuori da qualche parte. Io, Lina, Pina e Anna in cameretta a leggere l’enciclopedia …

  • Il terremoto…all’improvviso
  • Noi che ci rifuggiamo sotto il letto … il libro vola da qualche parte
  • La voce di nonna che urla fuggite … mamma che ci viene a prendere
  • Un rumore che aumenta, la voce della terra che supera quella di nonna
  • La corsa impossibile su scale animate da forza diabolica
  • La confusione nelle mani di nonno che non aprono il portone relegandoci a restare dentro nonostante tutto intorno cade …
  • La paura sulla faccia di mio papà…dopo una corsa a piedi da dov’era fino a casa
  • L’effetto dell’alcol su un passante che cancella i segni del terremoto
  • La nebbia …
  • La pipì addosso …
  • L’euforia di tutti per esserci ancora …
  • La conta di chi manca…
  • Le risate liberatorie …
  • La paura vera, viscerale e piena, alla seconda scossa di assestamento….
  • La notte in macchina al campo sportivo …
  • La voce di un signore al TG che dice: Qui non è rimasto attaccato neanche Cristo alla Croce.

Quella sera per me fu la 1° volta di tante cose. Mai avevo pensato che la casa potesse trasformarsi anche in una trappola; mai avevo pensato che papà potesse essere spaventato, su mamma nutrivo qualche dubbio ma papà fu una vera sorpresa; mai avevo pensato che i grandi non sapessero cosa fare e quella sera erano tutti confusi; mai avevo pensato che la Natura potesse essere così forte e crudele … il cielo rosso cupo che avvolse l’orizzonte era qualcosa di assolutamente nuovo e non si è mai più ripetuto.
E in ultimo, mai avrei pensato di rallegrarmi perchè anche se ci era passato vicino, la scossa aveva colpito altre persone, non la mia famiglia, altri palazzi, non la mia casa. A 8 anni compresi, vergognandomene, che tra me e gli altri … era meglio agli altri!
Novanta secondi ( tanto durò la scossa ) segnarono il passaggio tra l’innocenza e la consapevolezza.
E mentre io mi rendevo conto di tutto questo, il 23 Novembre 1980 il terremoto provocò 2.914 morti, 8.848 feriti e migliaia di sfollati.

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Parola ad Aversa … da “La Ruota degli Esposti” – 2009

Aria, ho bisogno di aria.

Troppa gente! Troppe auto! Troppi palazzi! Un’esagerazione continua si consuma sotto i miei occhi impotenti.

Li vedo, eccome se li vedo.

Piccoli vermi si arruffano e si accalcano gli uni verso gli altri, ciascuno per trovare il posto più interno, più coperto, meno esposto, chi resta in superficie in balia degli eventi. Ed urlano, fanno baccano, rimbombano da un quartiere all’altro. Sempre più forte.

Di me che sono il nido, il nascondiglio nessuno si cura e pochi hanno memoria. Dei miei tanti figli, scommetterei che solamente una manciata di loro saprebbe raccontare la storia che li ha preceduti. Troppo pochi purtroppo per credere che ritornerà un’epoca di fasti e grandiosità.

Pochi e soli; li sento che borbottano, si lamentano e si disperano chiusi nelle loro case, impauriti dall’avanzare di volgarità ogni giorno più triviali, di violenze e barbarie tanto inaudite quanto gratuite, di ordinaria ignoranza che tappa qualsiasi spiraglio di curiosità, che uccide la voglia di conoscere.

Io, per aiutarli, ho messo a disposizione tutto quanto è nelle mie possibilità.

Aria salubre, negli anni ne hanno beneficiato pazzi e malati ricoverati nell’ospedale psichiatrico e nel manicomio criminale; clima dolce e terre fertili, che hanno dato vita a prodotti unici come la mozzarella di bufala, il vino novello della vite maritata solo per citare quelli più famosi; architettura rara e affascinante, che  mette a confronto, come da nessun altra parte così vicino, l’anima medievale normanna alla struttura spagnola e poi chiese, palazzi, istituzioni, tradizione, usanze….

I miei figli buoni sono troppo pochi; la maggior parte degli aversani ignora tutto ciò. Potrebbero da un’altra parte, sarebbe la stessa cosa.

Certo, sento che si azzuffano continuamente in mio nome, ma si tratta di manifestazione folcloristica, non di vero amore. L’amore prevede il rispetto, prima di ogni cosa, ed io faccio i conti ogni giorno con offese ed oltraggi.

Come potrei chiamare altrimenti l’incuria in cui versa tutto il quartiere normanno?

Ed i palazzi antichi del Borgo che crollano senza che nessuno se ne interessi?

Le insegne dei negozi che distruggono portali ottocenteschi?

Ma quello che mi fa più male sono le interviste.

Appena c’è una telecamera che si agita, scoppia il finimondo.

Rossetti e fard, lacche e gel, cappelli e minigonne spuntano da ogni angolo. Tutti in posa, pronti, per domande insulse alle quali daranno degne risposte.

Nessuno ricorderà di menzionare la gloriosa storia della contea di Aversa, anche se tra di loro spunteranno teste bionde e rossicce che tradiranno geni d’oltralpe; nessuno ricorderà l’importante Real Casa della Santissima Annunziata che per secoli ha accolto trovatelli sottraendoli a morti crudeli, anche se leggendo i cognomi di chi si accalca per apparire per una sfuggente frazione di minuto troveremmo diversi discendenti degli abbandonati, dagli eloquenti cognomi legati alla frutta, alla verdura, al tempo meteorologico. Sì, tanti Peschi, Virzi, Pioggia; nessuno ricorderà le proprie radici. 

Mi denigreranno, aggiungeranno fango al fango.

Diranno che questa terra non offre niente, che non c’è lavoro, che non c’è niente per cui valga la pena viverci.

Ecco il ringraziamento per averli accolti e fatti crescere nel proprio seno, ecco il riconoscimento per avergli regalato una storia ricca ed una cultura variegata.

Presuntuosi ed ignoranti, pensano che sia possibile scindersi dalle proprie radici?

E perché non ammettono che sono loro i primi a far sì che io sia brutta e sporca?

Perché non la smettono di insozzarmi in ogni angolo?

Perché non si curano del patrimonio artistico che dopo secoli è in rovina?

Vorrebbero esser nati in una di quelle città tristi e grigie dove invece dei campanili si vedono le ciminiere?

Ed allora perché non ve ne andate, perché non partite?

Andate via, emigrate, scordatevi di me e non tornate. Sarebbe meglio per tutti, sapete.

Per me, per i pochi che resterebbero. Avere aria pura da respirare, si  potrebbe uscire dalle case senza paura e finalmente apprezzare e godere le mie bellezze. E soprattutto rispettarmi.

E forse potrebbero ritornare quelli che sono partiti per disperazione.

Vorrei rivederli quelli andati via col groppo alla gola nel lasciarmi; quelli che dentro ogni domenica pomeriggio hanno invano cercato la passeggiata della festa; quelli poi che hanno contribuito a far crescere un’altra città e hanno donato amore ed affezione che dovevano essere diretti a me; quelli che non hanno avuto coraggio e non hanno voluto affrontare i vermi nascosti nelle mie pieghe perché la vita umana purtroppo è breve e non la si può sprecare nell’intento di far cambiare gli altri; ed infine quelli che hanno fatto semplicemente bene da un’altra parte ed adesso hanno figli e nipoti che parlano altre lingue.

Vorrei rivedere tutte le persone e dire loro che li considero sempre miei figli, anche se mi hanno abbandonato. 

Vorrei sentire i loro passi ancora una volta, vorrei che tornassero.

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Isacco di Cracovia – storia chassidica di tesori nascosti

Storia chassidica:
«Una notte il rabbino Isacco, figlio di Ezechiele, che abitava poveramente a Cracovia ricevette in sogno l’ordine di recarsi nella lontana Praga e, una volta laggiù, scavare sotto un ponte che portava al palazzo del re. Lì avrebbe trovato un tesoro nascosto.
Egli non prese il sogno sul serio, ma poiché si ripeté uguale quattro o cinque volte, decise di mettersi in cammino in cerca del tesoro.
Quando però, dopo giorni e giorni di viaggio a piedi fino a Praga arrivò al ponte, scoprì con sgomento che era sorvegliato giorno e notte dai soldati.
E, giorno dopo giorno, si recava al ponte senza avere il coraggio di scavare nel punto indicato. Dopo qualche tempo, il capitano delle guardie lo notò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno.
Il rabbino, imbarazzato com’era, alla fine gli raccontò del sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese.
Il capitano scoppiò a ridere: “Ma davvero tu hai fatto tutta questa strada a piedi per dar retta a un sogno? Stai fresco a fidarti dei sogni… Allora anch’io, per dar retta a un sogno che faccio ripetutamente, avrei dovuto recarmi nella lontana Cracovia, in casa di un ebreo di nome Isacco, figlio di Ezechiele, per cercare un tesoro sotto la sua stufa… a casa di Isacco di Ezechiele, in una città dove la metà degli uomini si chiamano Isacco di nome e l’altra metà Ezechiele di cognome! Ora starei ancora a mettere a soqquadro quasi tutte le case della città!” E scoppiò di nuovo a ridere.
Isacco allora lo salutò, tornò a casa sua e da sotto la sua stufa dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga di Cracovia e visse agiatamente.»

Tutto questo per dire che talvolta andiamo lontano a cercare “tesori” che abbiamo sotto il nostro naso senza accorgerci che sono tali.

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Storia di Patrizia – Confidenze nr. 23 – Giugno 2012

“Ascolta le persone, ascolta quello che dicono e capirai chi sono”. Questo il consiglio che mia nonna, di tanto in tanto, mi dava accompagnandolo con un sorriso.  E da quando sono piccola, ascolto le persone per capirle. Ma purtroppo non sempre ci riesco. Con Maria ha funzionato, lei è la mia migliore amica da sempre e credo che sia la persona al mondo con la quale ho parlato di più. Ma con Marco, il mio primo amore, non è stato così. Abbiamo sempre parlato poco l’uno con l’altro e questo non mi ha permesso di conoscerlo fino in fondo, almeno fino a quel giorno in cui non ha deciso esprimere i suoi pensieri a parole.

Ho conosciuto Marco, una sera al cinema. Avevo vent’anni e con Maria avevamo deciso di andare a vedere “L’amante” di Annaud.  Uscendo dalla sala sia io, sia Maria eravamo visibilmente emozionate e quasi non ci accorgemmo di un gruppo di persone ferme dinanzi a noi. Ci fermammo giusto in tempo prima di travolgere il gruppo. Una ragazza si voltò e riconoscemmo una nostra compagna del liceo che non vedevamo da tempo. Ci salutò calorosamente e ci presentò agli altri. Marco dopo aver pronunciato il suo nome, fece un commento sgarbato sul film, a suo parere troppo sdolcinato e adatto ad un pubblico di “pollastrelle in calore”. Le sue parole furono accompagnate da un sorriso terribilmente seducente e, nonostante la volgarità della frase, i suoi occhi azzurri apparivano innocenti come quelli di un bambino. La serata proseguì in compagnia con aperitivo e cena, ma io non ascoltai più nessuno e non dissi niente, naufragai nel suo sguardo, completamente vinta. Fu un colpo di fulmine titanico! Il giorno dopo, Maria provò a fare dei commenti sui nuovi amici, ma quando si accorse che Marco mi piaceva, si zittì, raccomandandomi, però, di stare attenta prima di buttarmi a capofitto in una storia che, secondo lei, avrebbe potuto darmi dispiaceri. Il sabato sera successivo ci rivedemmo tutti insieme per una cena e quando ci salutammo Marco mi fece un cenno con la testa per indicarmi di stare indietro rispetto al gruppo. Avvampai in viso perché il gesto fu palesemente visto dagli altri presenti, ma rallentai il passo in attesa che dicesse qualcosa, introducesse un argomento di conversazione per conoscerci meglio. Invece lui non disse niente, si limitò ad allungare un braccio intorno alla mia vita. Lo lascai fare, sentire il suo tocco mi inebriava, non riuscivo a respirare regolarmente, figuriamoci pensare. La cena si concluse e tornammo ciascuno a casa propria, senza aver scambiato due parole. Trascorsi la settimana lavorativa in piena confusione. Il sabato successivo la scena con Marco si ripeté, stavolta però ci fu un lungo e appassionato bacio sulle labbra. Di parole tra noi non ce ne furono. Eppure durante le serate con gli amici, era piuttosto loquace, al limite dell’invadenza, non capivo perché con me non parlasse. Giustificavo il suo comportamento attribuendolo ad una sorta di timidezza nei miei confronti. Le serate si susseguivano e di parole non ne arrivavano. Maria, che nel frattempo aveva iniziato una storia d’amore con un altro ragazzo del nostro gruppo ed era al settimo cielo, mi chiedeva se io e Marco eravamo insieme, se eravamo “fidanzati”, ma io non sapevo cosa risponderle. La mia relazione con Marco, fatta di baci appassionati e di strette avvolgenti, non aveva un nome. Dopo qualche mese, iniziammo a vederci da soli. Allora non c’erano i telefonini, pertanto ci davamo appuntamento da un sabato all’altro, senza mai vederci, né sentirci in settimana. Avevo provato a proporre degli incontri diversi, ma lui si scherniva o, semplicemente, non mi rispondeva. Ci incontravamo, ci baciavamo, facevamo l’amore e poi ciascuno a casa propria, fino alla settimana successiva. Oggi mi chiedo come ho potuto accettare una storia che tra silenzi e assenze si è portata via quasi dieci anni della mia vita? Eppure è andata così! Ogni settimana speravo che Marco mi dicesse, finalmente, qualche parola d’amore, oppure semplicemente che volesse condividere con me altro tempo, oltre a quello del sabato sera ma nulla di tutto ciò avveniva. I nostri incontri passionali erano perfetti, ma la nostra relazione non si evolveva, restava una “storia muta”. Ed io che avevo da sempre amato le parole, la conversazione mi sentivo appassire incontro dopo incontro. Io volevo qualcuno con il quale condividere le emozioni o, semplicemente, i fatti di tutti i giorni. Questo amore consumato in silenzio, mi appagava nel breve, ma mi inaridiva. Nel frattempo, Maria si era sposata ed era diventata mamma di una bellissima bambina. Fui felicissima quando mi chiese di fare da madrina alla piccola Lucia, questo il nome della bambina e inoltre mi parve l’occasione buona per ufficializzare, con tutti, la mia relazione con Marco. Il sabato successivo introdussi il discorso e lui, alzando le spalle, disse testualmente: << Non me ne importa niente del battesimo! Vacci tu.>>. Lo guardai inebetita. Quelle parole furono per me un colpo durissimo. Per lui avevo aspettato anni in attesa che si decidesse ad un impegno più serio; avevo represso a viva forza tutti i rimbrotti dei miei genitori per una relazione vissuta da clandestina; avevo finto di non vedere la delusione sul volto della mia amica, prima, e l’imbarazzo dopo ogni qualvolta c’era una festa o una ricorrenza dove puntualmente mi presentavo sola; e su tutto avevo zittito la mia voce interiore che, puntualmente, ogni sera discorreva da sola con l’unico bisogno reale di avere una persona con la quale comunicare. E venivo ripagata così? Era troppo! Quel poco di stima verso me stessa che mi era rimasta, mi permise di allontanarmi. In silenzio. Mi allontanai senza dire una parola! Lo ripagai con la stessa moneta. Non credo abbia compreso il mio gesto e non so che giustificazione si sia dato. Da quel giorno non l’ho più né visto, né sentito. E la cosa più strana è stata che non mi mancava, perché insieme non avevamo costruito nulla. Non mi sentivo più sola di quanto non ero prima. Non avevo nessuno con cui dividere le parole, ma in realtà non l’avevo mai avuto. Mi tornavano solamente in mente le parole di mia nonna e dovevo ammettere che aveva proprio ragione. Se avessi ascoltato prima Marco, avrei capito di che pasta era fatto. Ma non avevo voluto! L’amore che provavo per lui giustificava ogni suo gesto, ogni sua mancanza. Ero convinta che prima o poi sarebbe cambiato.  Trascorsero due mesi in una sorta di apatia che mi rendeva difficile i gesti quotidiani. Alle parole decisi di opporre le lettere ed iniziai a scrivere i miei pensieri. Dapprima con circospezione e, poi, man mano, che passavano i giorni, il mio diario divenne la mia personale cassaforte delle parole. Arrivò anche il giorno del Battesimo e, come sempre, mi presentai da sola. C’erano tanti invitati e Maria, tra gli altri, aveva invitato anche Michele, un amico di suo marito, per fare da padrino alla piccola Luisa. Michele si presentò in maniera cordiale e, durante la giornata trascorsa insieme, chiacchierammo del più e del meno. Quando tornai a casa, quella sera, pensai che dopo un sacco di tempo mi sentivo bene, in forma. Non pensavo che il giorno dopo Michele avrebbe richiamato e neanche che l’avrebbe fatto per i successivi venti giorni, fino a che, decisa a non ricadere nella trappola del silenzio, gli chiesi a bruciapelo cosa volesse da me. La sua risposta, fatta di parole magiche, mi scalda il cuore ogni volta che la ripeto ed è il motivo per il quale io e Michele ci siamo sposati dopo sei mesi e, adesso, abbiamo due figli meravigliosi. Michele mi disse: << Patrizia, voglio solo parlare un po’ con te, vorrei capire come sei! >>

 

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Storia di Margherita – Confidenze nr.10 – Marzo 2012

Mi chiamo Margherita, ho 59 anni e da un anno sono a casa dal lavoro. In pensione. Ho un gruzzoletto da parte per far fronte agli imprevisti che si potrebbero presentare e la pensione mensile mi permette di vivere bene; insomma dal punto di vista economico non mi manca niente.  Nei primi mesi era strano ricevere soldi restando a casa, ma alle cose buone ci si abitua presto. Pensavo sarebbe stato difficile non lavorare, separarmi dall’ufficio, mia casa per 40 anni, ed invece non mi è pesato affatto; stento persino a ricordare il volto del collega che mi ha reso la vita impossibile per cinque anni. Mi alzo presto al mattino, faccio colazione, curo il giardino, leggo, mangio e faccio la nonna nel pomeriggio. Veramente non sono propria la nonna di Marika, lei è la nipotina di mio fratello. La piccola lo sa e per distinguermi dagli altri nonni, mi chiama la “nonna Margherita del cuore”.  Tutto perfetto, insomma o quasi. Un piccolo cruccio ce l’ho! E’ un pensiero pigro e si insinua lento nella mia testa quando ho un attimo di ozio. E’ un tarlo leggero, di quelli di cui ci si vergogna un po’ e ci si imbarazza a raccontarlo. Riderebbero di me. Forse la mamma di Marika, la mia adorata Angela potrebbe capire, ma è sempre così presa, tra famiglia e lavoro, che non oso rubarle del tempo e dello spazio. Tra me e me, però lo confesso … vorrei sapere come sono proseguite le vite dei miei compagni di viaggio. Per recarmi a lavoro in città, per quarant’anni, ho utilizzato il treno. Ogni giorno, un’ora all’andata e un’ora al ritorno. E le persone che incontravo erano sempre le stesse. I visi, seppure in certi casi neanche ci si scambiava il saluto, sono sempre quelli ed io li guardavo intensamente, cercando di indovinare le storie che nascondevano. E vi posso assicurare che guardando attentamente una persona si può capire tante cose. Purtroppo con l’arrivo della pensione, alcune storie sono rimaste a metà. Ho lasciato in sospeso il “timido”, un ragazzino brufoloso con degli occhi verdi magnifici, e la “vanitosa”, una ragazza baciata dalla bellezza e già consapevole di questo. Lui ogni mattina, per cinque anni, l’ha guardata adorante e lei, di rimando, lo ha ignorato sdegnosa, ma negli ultimi tempi avevo visto degli avvicinamenti decisi di lui che mi avevano fatto ben sperare. Io facevo il tifo per lui e, quando riusciva a strapparle un sorriso, ero felice come una Pasqua. Poi, vorrei sapere se la signora che saliva due stazioni dopo la mia, ha ricevuto la conferma definitiva del contratto di infermiera. Si è lamentata per due anni del lavoro precario che le toccava fare, ma conoscendola un po’ si lamentava anche per il caldo, per il freddo, per il sole, per la pioggia, insomma per tutto. Secondo me quando usciva di casa, il marito e i figli tiravano un sospiro di sollievo, anche se lei non risparmiava loro critiche e lamenti fatti via cellulare, anche durante il viaggio. C’erano anche persone delle quali sapevo meno che però mi incuriosivano molto. Cercavo di ascoltare, di indagare con lo sguardo, di capire dai movimenti del viso gli stati d’animo, dalle espressioni assunte quando erano soprapensiero carpivo le emozioni. E mi mancano anche loro. Vorrei sapere se la ragazza di Brescia piange ancora per il marito rientrato in casa con l’odore di un’altra o se ride paga, con espressione beota, perché la sera precedente è stato suo il turno dell’amore; se al disperato uomo di Rovato sia mancata la madre malata di Alzheimer, che lui non riconosceva più nell’involucro vecchio e immemore nella quale la malattia aveva costretto quella che doveva essere stata una donna straordinariamente bella, almeno a  giudicare dalle foto che di tanto in tanto lui rimirava furtivo nel portafoglio; e poi mi mancano i ragazzi con i loro zaini e i pantaloni vista-sedere, mi chiedo se saranno ancora di moda o nel frattempo saranno stati sostituiti da altro, magari adesso vanno in giro con le salopette che coprono anche il volto ed io non lo so. Il viaggio in treno, le emozioni che vivevo da Brescia a Bergamo sono le uniche cose, le uniche, che mi mancano. Il viaggio era più importante della meta. Entrare nel vagone, lo stesso per anni, mi apriva le porte di una telenovela che si aggiornava quotidianamente. Con le ripetizioni solite, tante che mi rassicuravano e con i colpi di scena che ravvivano la mia giornata. E poi c’era la possibilità di incontri, nuovi!
Nella mia vita, che si è ripetuta per anni sempre nello stesso modo, la variabile era rappresentata dal tragitto per arrivare in ufficio e tornare a casa. E’ strano come i miei compagni di viaggio, dei quali non conosco, né conoscerò mai i nomi, sono quelli che mi hanno guardato e che a mia volta ho scrutato di più. Ah quanti ricordi legati alle occhiate!
Potrai parlare per ore dello “sguardo di rapina” che mi ha accompagnato per un anno da Grumello a Bergamo. Lui era bruno e corpulento, vestiva con una tuta da lavoro ed aveva grosse mani callose. Ho sognato tutti i giorni quelle mani. Saliva in treno e si posizionava davanti a me, si fermava e mi fissava con occhi di brace. All’inizio giravo la testa sdegnosa di attenzioni non richieste, ma l’insistenza, la brama così manifesta erano impossibili da ignorare. Non è che due occhi neri, lucidi, incorniciati da ciglia vellutate si trovano così! Di giorno in giorno, aspettavo sempre con più ansia la fermata galeotta. Ed insieme all’ansia, cresceva il tempo trascorso a casa a prepararmi per uscire. Tanto che talvolta correvo il rischio di perdere il treno. Allora ero sposata con Alberto, ma la nostra relazione era stanca e vuota da anni. Figli non ne erano mai arrivati e, dopo, la passione iniziale eravamo quasi due estranei che vivevano sotto lo stesso tetto. Il divorzio è arrivato qualche anno dopo. Una sera avevo anche provato ad accennare a mio marito che in treno un uomo mi fissava. Mi aveva fissato anche lui, ma il suo sguardo tradiva una certa inadeguatezza a comprendere le mie parole. Il mio mondo “viaggiante” era una dimensione nella quale vivevo solo io, novella Alice nel treno delle meraviglie, ed allora avevo lasciato perdere, assolvendomi da sola per un peccato che rimaneva solo nelle intenzioni, senza diventare gesto concreto.Quell’anno trascorse in fretta e una mattina il mio lui con la tuta blu mi salutò dicendo che cambiava lavoro e itinerario. Purtroppo i nostri tempi non erano coincisi, lui era andato via prima che il mio matrimonio fosse finito. Ed io sono stata sempre troppo timida e pudica, forse anche un po’ codarda, per imbastire una storia extraconiugale. Era strano, noi che non avevamo scambiato mai una parola fino a quel momento, ci salutammo come se avessimo condiviso giorni, ed anche notti, di chiacchiere. Scendendo mi augurò cose belle e disse che ci saremmo rivisti. Chissà adesso dov’è e cosa fa? Magari, di tanto in tanto, riprende il treno. Magari mi cerca con lo sguardo tra i mille occhi che popolano il vagone di mezzo. Magari un giorno mi sveglio presto e faccio un giro in treno.Chissà che non potremmo ritrovarci … Adesso sarebbe il momento giusto!

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