Progetto Invisibili 2021: C’ero anch’io su quel treno di Giovanni Rinaldi

La guerra. Quella vera. Quella che porta la morte, la fame, la disperazione. Quella che lascia annichiliti, annientati. La seconda guerra mondiale che ha devastato l’Europa è stato questo. E nonostante la nostra percezione sembri relegare questo evento lontano nella storia, i fatti risalgono a circa 70 anni fa. Tante persone che l’hanno vissuta sulla proprio pelle sono oggi nostri nonni e a saperli ascoltare avrebbero tanto da raccontare.

Giovanni Rinaldi l’ha fatto. Ha iniziato venti anni fa a porgere orecchio e attenzione alle persone, proprio in un tempo dove l’interesse di tutti iniziava a essere calamitato sugli schermi dei cellulari piuttosto che sulle facce della gente.

Con la tempra e il talento dello storico, ha riscostruito tassello dopo tassello la vicenda dei “treni della felicità” , un movimento sociale che ha percorso tutta la nostra penisola. Partito dall’idea di Teresa Noce a Milano e poi presa in prestito dalla donne dell’UDI, Unione Donne italiane, si diffonde in tutta Italia. I bambini delle zone più martoriate dalla guerra o dalla grave crisi economica e sociale che ne è derivata partono e sono ospitati da famiglie “accoglienti” che per qualche tempo riescono a dare loro un tetto caldo, da mangiare in maniera costante e anche istruzione dove possibile.

Il partito Comunista, anzi per dirla meglio, le DONNE del Partito si spesero in un’impresa che anche vista con gli occhi odierni ha del portento, vi lascio immaginare cosa sia potuto essere nell’immediato dopoguerra. Eppure ci sono riuscite e questa impresa ha dato una visione di futuro a migliaia di bambini che speranze ne avevano conosciute veramente poche. La smobilitazione del nostro paese è passata anche attraverso questa impresa e credo sia cosa non da poco.
Poi trascorsi pochi anni dal 1945 e con l’inizio di sembianze di normalità per l’Italia, dei “treni dei bambini” non si parlò più. La polvere iniziò a coprire i pudori di chi fu accolto e strappato dalla miseria e di coloro che accolsero con solidarietà e spirito di fratellanza. Il tempo fece il resto.

La caparbietà di Giovanni unita alla pazienza di tessere insieme notizie, testimonianze sparse, lavori e ricerche solitarie ha fatto sì che persone che avevano vissuto questa esperienza potessero ritrovarsi, ringraziarsi e ancora una volta abbracciarsi.

Le loro testimonianze sono parte della storia del nostro paese e nel libro troverete voci e racconti di vita emozionanti e teneri, feroci e intensi.

E’ da leggere il libro di Giovanni per tanti motivi, ma soprattutto perché apre una finestra su persone che fecero del bene ad altri semplicemente perché era giusto farlo e perché credevano in un ideale che sentivano parte fondante della loro vita che era quello della “comunità aperta che condivide tutto, dove ciascuno può essere e dare il meglio per il bene comune“.
E’ un’utopia?
Forse. Eppure leggendo il libro di Giovanni si comprende che tutto ciò, senza grande rumore, è già avvenuto.
E se è già successo, accadrà di nuovo e accade anche oggi. In silenzio migliaia di persone fanno del bene agli altri, ospitano, danno lavoro o semplicemente offrono sorrisi e ascolto. Solidarietà e unione tra persone non sono utopie, sono modi di essere.

Buona lettura, anzi buona immersione nella bella Italia che Giovanni Rinaldi ha saputo scoprire e descrivere. Un saggio, il suo, più bello e emozionante di un romanzo, la realtà più sorprendente di qualsiasi fiction.

Qui a questo link potete rivedere l’incontro con l’autore del 30 Settembre 2021. Non ve lo perdete, Giovanni è anche un grande conversatore.

libro

 

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Storia di Alice Cuocadè – In cucina si cresce – Confidenze nr. 20 Maggio 2021

Ecco Alice che presenta una sua ricetta per CONFIDENZE : Clicca qui

3 - Storia di Alice Cuocadè Confidenze nr. 20

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Dov’è sempre CASA – Storia di Laura De Carlo e degli AMICI di Hauycan – Confidenze nr. 3 – Gennaio 2021

1 - Storia di Laura De Carlo - Confidenze nr. 3

Ci sono parole che in alcune lingue hanno un senso ed in altre cambiano significato. La parola “compassione” è una di queste. Nelle lingue latine, quindi anche in italiano, viene associata alla pietà, alla pena che si prova per gli altri, mentre in tedesco o in polacco il termine viene utilizzato per definire la partecipazione ai sentimenti degli altri, siano essi di dolore, di gioia o di felicità. L’autore Milan Kundera nel suo libro più conosciuto descriveva la compassione come la telepatia delle emozioni. Ecco, io non so se è proprio quello che mi è capitato nella vita, ma ho avuto la gioia e il fardello allo stesso tempo di sperimentare la “con-passione”, di sentire la gioia e i dolori delle altre persone. Persone lontanissime fisicamente da me, eppure percepite vicine come se vivessero d’altra parte del pianerottolo. Adesso, vi racconto. Mi chiamo Laura e vivo a Roma. Circa venticinque anni fa, per quelle strane analogie che talvolta arrivano nella vita, ho conosciuto Huaycan. È iniziato tutto per caso. Alessandra, un’amica di un’amica che era in viaggio in Perù, aveva dato la disponibilità a fare una consegna ad un prete in una sperduta periferia della capitale. Arrivata a Huaycan, la situazione di quel lembo di montagna, arso dal sole, senza nessuna fonte d’acqua e nel completo abbandono da parte di tutta la società, l’ha così colpita che non ha proseguito il suo viaggio e vi si è fermata per un anno. La situazione politica e sociale del Perù negli anni Novanta era critica; il paese era in balia di continui attacchi terroristici che laceravano il paese e creavano caos e terrore nella popolazione. Ad Huaycan continuavano ad arrivare intere famiglie di contadini scappate dalle campagne e dalle montagne per sfuggire alla guerriglia scatenata dal gruppo paramilitare di Sendero Luminoso. La capitale in quegli anni non era in grado di accogliere tutti i profughi e man a mano che le persone si avvicinavano a Lima, cercavano di stabilirsi dove meglio potevano. Huaycan è nata così. L’ammasso di contadini che arrivavano da diverse zone del paese, che spesso non parlavano lo stesso dialetto e non erano in grado di comprendersi, l’assoluta mancanza di qualsiasi mezzo di sostentamento e di prospettiva futura, l’inospitalità del luogo hanno fatto sì che il disagio e il degrado sociale diventasse quotidiano. Nell’anno in cui la nostra amica è rimasta lì, ha costruito nel terreno di una parrocchia un piccolo centro di accoglienza dove sono state accolte alcune mamme single e il loro bambini. La società contadina peruviana è molto maschilista e, ancor oggi, seppur in maniera meno forte rispetto a trent’anni fa, le donne quando raggiungono una “certa” età vengono abbandonate dai mariti e “sostituite” con altre più giovani. Anche i bambini sono tenuti in scarsa considerazione, in quanto non producono reddito e risultano di peso alle famiglie che devono mantenerli. Come sostenere questa piccola realtà? Alessandra ha chiesto aiuto ai suoi contatti in Italia e ci siamo attivati. In quel periodo eravamo un gruppo di amici, con tempo a disposizione e tanta voglia di fare qualcosa di buono. Attraverso un tam-tam, abbiamo mosso tutti i canali a nostra diposizione. Abbiamo fatto e venduto marmellate, promosso spettacoli teatrali e collette, organizzato tornei di tennis e raccolte fondi. Tutto quanto ci è venuto in mente, l’abbiamo fatto e i risultati sono arrivati. Il centro accoglienza è diventato una realtà solida e abbiamo fondato l’associazione “Amici di Huaycan onlus” per sostenere economicamente dall’Italia quel presidio lontano. Io ne faccio parte sin dalla prima ora e sono la presidente dell’associazione. Col passare degli anni, il centro è diventato un punto di riferimento per gli abitanti di Huaycan e alcune delle donne che per prime sono state accolte e aiutate, sono diventate esse stesse operatrici da noi. Uno dei primi problemi che ci siamo trovati ad affrontare era quello della salute. I bambini morivano a decine in età scolare e le malattie avevano la meglio, complici il clima insalubre, molta polvere e la mancanza d’acqua. Abbiamo promosso delle campagne di prevenzione e, con molto fierezza, vi dico che finalmente dal 2007 tra i bambini che seguiamo non ci sono stati decessi per la tubercolosi. Forse dall’Italia questa informazione può sembrare banale, noi consideriamo la TBC non più un problema sanitario da decenni, eppure a Huaycan provoca ancora oggi vittime, specie tra i più piccoli. Un altro progetto di cui siamo fieri è quello nato per aiutare le madri “solteras” . La nostra “Casita” è un centro diurno che accoglie i bambini di genitori in difficoltà (in gran parte mamme single), in modo che possano andare a lavorare in tranquillità. Ai bambini offriamo doposcuola, laboratori, spazi per il gioco e la mensa. L’approccio che utilizziamo è di tipo cooperativo, cioè le famiglie sono chiamate a collaborare  e pagano una piccolissima quota, simbolica, che però permette loro di sentire che stanno usufruendo di un servizio e non stanno ricevendo la carità. Oggi seguiamo circa sessanta bambini dai due ai sedici anni e diamo una mano anche a tutte le loro famiglie e alla comunità di cui fanno parte. Per fare un esempio, un piccolo intervento di microcredito, mirato, può svoltare la vita di un’intera famiglia e offrire una possibilità concreta e soprattutto speranza di futuro. Nei primi dieci anni, il mio aiuto alla comunità di Huaycan lo avevo dato dall’Italia, ma non ero mai andata in Perù. Poi ho avuto una crisi. Erano anni che seguivo la parte amministrativa e di raccolti fondi e iniziavo a sentire che il mio slancio si stava esaurendo. Allora prima di lasciare l’associazione, ho deciso di partire. Volevo andare a vedere sul posto cosa avevamo fatto di buono. Ho organizzato la famiglia, fatto tutte le raccomandazioni possibili a nonna e figli e sono andata. Da Lima, in taxi ho raggiunto la periferia. Quello che ho trovato, non è semplice da descrivere. Intorno a me la povertà era ovunque. L’ho già detto, lo so, ma è difficile immaginare con quanto poco le persone lì possano vivere. E poi c’era la situazione di degrado nella quale versavano certe famiglie che era davvero insostenibile. Quando interi nuclei familiari vivono ammassati in una casupola, anche volante ( sì, esistono baracche che si spostano da un terreno all’altro a secondo del vento e dell’ospitalità che viene offerta) allora la promiscuità può portare situazioni insostenibili e ad abusi. Queste realtà e tanti paradossi convivono a Huaycan. Eppure, allo stesso tempo, le donne e i bambini di un tempo, ormai giovani adulti, che erano cresciuti alla Casita erano grati e soprattutto felici di esser riusciti a “salvarsi” da una situazione che offriva loro poco o niente per affrontare la vita. Non portavano doni per ringraziarmi, ma mi facevano vedere quello che erano riusciti a raggiungere: un lavoro dignitoso, una giovane famiglia, le feste di compleanno che organizzano per i loro figli, di cui vanno fieri. Ci tenevano a mostrarmi che erano madri e padri affettuosi e rispettosi. Ecco, in quel viaggio è scattato dentro di me qualcosa, la “con-passione” che vi dicevo. Ho sentito la gioia e il dolore di queste persone ed ho toccato con mano cosa realmente di può fare. Sono tornate altre volte in Perù e trovo il tempo e le risorse per andare avanti con l’associazione.  Questo anno per Natale  stiamo raccogliendo fondi per stare ancora più vicino ai bambini di Huaycan, dove l’emergenza sanitaria ha inasprito il divario sociale e aumentato le difficoltà, soprattutto nell’accesso all’istruzione. Immaginate come funziona la didattica a distanza dove non arriva l’elettricità? Sul nostro sito www.amicidihuaycan.it potete trovare tutte le informazioni e sono a disposizione di tutti per qualsiasi indicazione. Quando penso a quanto c’è da fare per i bambini di Huaycan un po’ mi scoraggio, ma poi penso alle parole che sono il nostro motto “Porte aperte per chi bussa”, e capisco che la porta della Casita deve restare aperta, e vado avanti. Ancora.

 

 

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Libro: IL BAMBINO E’ IL MAESTRO (Rizzoli) di Cristina De Stefano

 

 IL BAMBINO E’ IL MAESTRO

Ho incontrato questo libro, qualche settimana fa, leggendo la recensione di Paolo Di Stefano su LaLettura. Non conoscevo l’autrice e mi è sembrata una buona occasione per leggerla e allo stesso tempo per conoscere anche Maria Montessori, la protagonista di questa biografia, della quale in effetti sapevo poco, molto poco.

Le biografie sono le letture che mi accompagnano quando sono in crisi di idee, quando sono davanti a degli ostacoli che mi paiono insuperabili oppure quando mi sembra che tutto il mondo mi remi contro. Di solito, per risvegliarmi dal torpore, leggo la vita di qualcuno che ha fatto cose eccezionali, se è una donna è meglio. Mi rilassa e mi rincuora sapere che anche persone di spessore hanno avuto problemi, incidenti di percorso, fraintendimenti quando non veri e propri ostracismi alle imprese che portavano avanti. Allora mi sono immersa nella lettura in questo momento di Fase 2 o 3 post picco pandemia e, ancora una volta, non sono stata delusa.

Maria Montessori, così come emerge dal libro della De Stefano, è una donna complessa con una visione che l’ha accompagna per tutta la vita che però le costerà un prezzo carissimo in termini privati. Una donna che per realizzare la sua visione non esita a chiedere a chiunque le possa dare una mano economica; che scrive e dialoga con Mussolini e con esponenti dei governi europei delle più diverse estrazioni politiche, senza remore e senza pregiudizi politici; che passa attraverso due guerre mondiali e persegue le sue idee fino all’ultimo istante di vita. Un genio, anzi meglio, una donna talentuosa con una visione di futuro che somiglia molto ad una missione e che pone al centro del futuro degli uomini il bambino. E come tutti i geni, è anche una persona complicata, collerica e in certi momenti poco trattabile, spesso impaurita dagli altri proprio quando le sue idee si stanno per trasformare in qualcosa che va oltre lei. Forse questo il suo limite più grande, il non aver saputo vedere che anche altre persone avrebbero potuto rendere grandi le sue idee. Ma bisogna sempre collocare bene le persone nel tempo di vita nel quale si sono trovate ad operare e Maria Montessori in questo non fa eccezioni. E’ una donna che aveva bisogno di soldi per essere indipendente e non voleva farlo attraverso i soldi di un marito che non ha mai voluto. Un figlio sì, però. Ma non scrivo di più perchè mi piacerebbe che leggendo il libro ciascuno si possa fare un’idea propria su questo argomento. Io sono del parere che si sceglie quando si ha una scelta, Maria Montessori non ne aveva di scelte e ha cercato di fare del suo meglio per essere madre.

Sulle sue teorie che oggi sono abbondantemente riconosciute come base della pedagogia e che in diversi frangenti hanno anticipato di decenni studi che adesso la scienza inizia ad approcciare, credo che dobbiamo solo riconoscere la grande intelligenza e forza della Montessori.

Cito solo questa sua frase che fa parte di un suo discorso e che trovo illuminante proprio oggi alla luce dei tempi che viviamo:

Bisogna essere attenti contro l’eccesso di stimoli per i bambini, perché troppo materiale ( ndr troppi giochi, troppo da fare) può confondere…

E chiudo con una sua frase che ha fatto epoca. Alla domanda fattale su dove si sentisse a casa, a seguito dei suoi tanti viaggi e spostamenti, lei risponde:

Il mio Paese è una stella che ruota intorno al sole e si chiama Terra.

Buona lettura a tutti. Amerete questo libro e amerete Maria Montessori, come pure la grazia con la quale l’autrice ha disegnato la vita della più grande educatrice e insegnante del Novecento.

copertina

 

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Libro: Il treno dei bambini di Viola Ardone

Un romanzo intenso e coinvolgente con una seconda parte strepitosa.

I treni della felicità furono un’iniziativa di solidarietà nata nel 1946 da un’intuizione di Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana milanese rientrata dal campo di Ravensbrük. Milano era una città affamata e distrutta dai bombardamenti, Teresa Noce con l’aiuto di quello che restava dell’Unione Donne,  ottenne che diversi bambini milanese venissero ospitati da famiglie campagnole,per lo più della provincia di Reggio Emilia che si fossero rese disponibili.  In questo modo, seppur lontani dagli affetti familiari, ai bambini perlomeno il cibo per l’inverno sarebbe stato garantito. L’operazione ebbe così tanto successo che l’iniziativa si estese anche ai bambini del Sud e fino a metà degli anni ’50 circa 70.000 bambini vennero ospitati, curati e mandati a scuola grazie a tante famiglie di comunisti che misero a disposizione quello che avevano per SOLIDARIETÀ. (Link per ulteriori info www.anpi.it/articoli/636/1946-i-bimbi-dei-treni-della-felicita)

Il libro di Viola Ardone ripercorre questa toria semisconosciuta e dimenticata della nostra Italia migliore e, attraverso Amerigo Speranza, un bambino di 7 anni, ci accompagna su un treno che parte da Napoli e arriva a Modena.

La voce di Amerigo, scugnizzo napoletano che ha alle spalle una guerra, bombardamenti, lutti e abbandono è delicata e spudorata allo stesso tempo.  Lo si ama subito Amerigo.  Il candore e la furbizia non lo lasciano mai, gli occorrono per sopravvivere in un vicolo di Napoli dal quale non si vede granché di quello che c’è fuori e dove anche i sogni sono inutili perché tanto anche se si avverano non è nei bassi di Napoli che ciò accade. Eppure nonostante una realtà durissima, Amerigo sa cos’è l’amore perché a modo suo la madre Antonietta lo difende e lo ama con tutta se stessa. Questo è il motivo per cui accetta l’invito dei comunisti e lo fa salire su quel treno. Amerigo arriverà a Modena e incontrerà i suoi sogni e non se ne distacchera’ più.

Non racconto altro, non è necessario. Dico solo che Amerigo adulto, la seconda parte del libro, mi ha profondamente commosso. Mirabile prova di letteratura, la seconda parte, per me sfiora la perfezione per un romanzo.

Ho solo due crucci sulla prima parte;

1. l’autrice offre un’immagine quasi “perfetta” della famiglia modenese che ospita Amerigo. Siamo nel primissimo dopoguerra e c’è troppo cibo in quella casa; in quelle campagne la guerra civile per la liberazione era stata combattuta metro per metro e aveva lasciato divisioni e ferite che certamente non rimargirarono da un giorno all’altro. L’autrice non è riuscita a cogliere il contesto politico e sociale entro i quali quella ospitalità è avvenuta. Troppa dolce la descrizione della famiglia e della società che accoglie i bambini.  Forse l’intento non era quello di una disamina della situazione della provincia emiliana nel primissimo dopoguerra, ma ignorare del tutto quel momento storico non offre una dimensione importante per comprendere cosa sia stato il fenomeno dei treni della felicità.  Anche il sommo sforzo che quelle famiglie compirono in un momento drammatico dell’Italia in nome di un ideale, di una valore condiviso da quasi tutti. Mi dispiace perché se Viola Ardone avesse fatto questo ulteriore sforzo il suo romanzo sarebbe stato perfetto.

2 – La dolcezza con la quale viene dipinta la famiglia che ospita il bambino, talvolta si riverbera anche in qualche pensiero del piccolo Amerigo.  Ed anche qui il romanzo sfugge un po’ all’autrice che per eccesso di attenzione verso il suo protagonista perde quella linearità necessaria che aiuta a non superare il limite oltre il quale la storia vira verso il barocco delle descrizioni.

 

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Storia di Carmela e Paolo – Giugno 2017

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Storia di Paolo - Confidenze nr. 24 Giugno 2017_Pagina_1 Storia di Paolo - Confidenze nr. 24 Giugno 2017_Pagina_2

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Storia di Davide Madeddu – Maggio 2017

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Lulù e le cose da non fare più

 Un gatto è un gatto…..una bambina è una bambina.

 

 

Il gatto miagola                        mi mi miao … mi mi miao

La bambina parla                     Ciao, che bella giornata …bla bla bla

 Ma a volte capita, e non soltanto nelle favole, che un gatto ed una bambina si incontrano ed allora parlano … insieme.

Ma i gatti non parlano! Allora forse miagolano … insieme.

Ma le bambine non miagolano! Allora forse parlano … insieme.

Insomma, per farla breve, non si sa bene come, se parlando o miagolando, riescono a capirsi.

 Allora un certo giorno  ….

Nel paese di GUARDAUNPOTU’ c’era una bambina che si chiamava Lulù.

A Lulù piaceva correre al parco, fare grandi salti e salire sulla gru, che non era proprio una gru ma uno scivolo gigante sul quale lei faceva su e giù, proprio come su una gru.

E le piaceva anche giocare con suo fratello grande Gianlù, che si chiamava Gianluca Antonio Federico Massimo Alberto, ma che lei chiamava Gianlù, per fare prima.

Ogni tanto, però, Gianluca Antonio Federico Massimo Alberto ( vabbè! forse è meglio che, anche noi, lo chiamiamo solo Gianlù, che ne dite?!?) voleva anche giocare con i suoi giochi, creati per i bambini più grandi, e allora si chiudeva nella sua cameretta e accendeva la PSP, la Xbox, il Nintendo DS, la Wiii e giocava … solo per un tempo breve come gli avevano indicato la mamma ed il papà.

Gianlù aveva capito che rispettando i tempi dati dai genitori riusciva a divertirsi tanto …. tantissimo, era sempre allegro e non aveva mai mal di testa o agli occhi come capitava, invece, al suo amico Carlo Francesco Giuseppe Secondo che giocava tutto il giorno con i giochi elettronici e non si fermava mai.

La cosa particolare del paese di GUARDAUNPOTU’ era che si potevano avere tutti i giochi possibili perciò i genitori dovevano fare particolare attenzione ai loro bambini e controllare che i piccoli giocassero con i giochi per i piccoli e che i grandi giocassero con i giochi per i grandi.

 Lulù, però, era molto curiosa ed un po’ disobbediente e voleva proprio giocare con i giochi di Gianlù.

La mamma ed il papà le avevano spiegato che lei non poteva ANCORA GIOCARE  perché era piccola, che nei giochi c’erano immagini, suoni che potevano spaventarla e che bisognava rispettare SEMPRE le indicazioni date dai fornitori di giochi sui limiti d’età.

Sui giochi di Gianlù c’era scritto – VIETATO AI MINORI DI 14 ANNI – ma questo non importava proprio a Lulù.

A questo punto GATTO, che casualmente era passato dal paese di GUARDAUNPOTU’, decise che era meglio parlare, scusate miagolare con Lulù …. e avvisarla che poteva essere molto pericoloso non ascoltare quello che consigliano i genitori laggiù.

Adesso, però, vi devo svelare un segreto. Gatto non è un semplice gatto. E’ un felino speciale che arriva quando un bambino o una bambina sta per mettersi nei guai … I grandi non lo vedono, sia chiaro …. ma i bambini sanno che c’è. A volte non si fa vedere neanche dai bambini, però sussurra nell’orecchio le cose giuste da fare …. mi mi miao, mi mi miao, mi mi miao che tradotto significa fai attenzione, ascolta i buoni consigli, ricordati cosa ti hanno insegnato mamma e papà e i bambini sentono nella pancia che devono “cambiare rotta” e non fidarsi di persone che non si conoscono, anche se sembrano buone, non allontanarsi da casa senza avvertire prima mamma e papà, non mangiare fino ad ingozzarsi, non fare giochi proibiti  ….. e altre cose pericolose per i piccoli.
A voi non è mai capitato di “sentire nella pancia” un allarme quando bisogna stare attenti? Ecco, il solletico allo stomaco è la voce di Gatto!

Per ritornare a noi ….un certo pomeriggio Gatto entrò di soppiatto in casa di Lulù ed iniziò a seguirla. Miagolava, miagolava di continuo ma Lulù aveva le orecchie chiuse.

La bambina aveva deciso che, uscito suo fratello Gianlù, si sarebbe intrufolata nella sua stanza ed avrebbe usato tutti i suoi giochi elettronici. Detto, fatto, Lulù restò, tutto il pomeriggio, a fare i “giochi da grandi”.

Gatto bussò alla porta della cameretta e continuò per tanto tempo, ma Lulù non sentiva più, assorta com’era a far andare gli occhi, su e giù.

Quella sera Lulù non mangiò niente, aveva un mal di testa mooolto martelloso e un’irritazione agli occhi mooolto bruciosa. La mamma ed il papà si preoccuparono a vederla così e le chiesero se fosse successo qualcosa.

Gatto, da sotto il tavolo, le tirava l’orlo della gonna e miagolava mi mi miao, mi mi miao, mi mi miao che tradotto significa racconta cosa hai fatto, fidati della tua mamma e del tuo papà … Ma Lulù non sentiva più, si era addormentata con la testa che le penzolava giù. Mamma e papà la presero in braccio e la portarono a letto, le diedero il bacio della buonanotte, lasciarono sul comodino il libro che dovevano leggere insieme e chiusero la luce.

Quella notte fu lunghissima per Lulù. Mostri enormi le saltavano addosso, draghi sanguinolenti la costringevano a correre fino a perdere il fiato, bande di creature orribili la volevano prendere e poi streghe, orchi, baubau … e alla fine degli incubi un Mangiabambini enorme stava quasi per inghiottirla …..quando Lulù urlò con tutto il fiato che aveva in gola, svegliando la mamma, il papà e Gianlù.

Gatto saltò sul letto di Lulù e, per calmarla, le fece il solletico sul naso con i suoi lunghi baffi.

Poi le disse mi mi miao, mi mi miao, mi mi miao che tradotto significa: “Piccola Lulù, ecco cosa succede ai bambini che non ascoltano i consigli della propria mamma e del proprio papà. Quei giochi non erano adatti alla tua età, eppure hai voluto provarli lo stesso guardando immagini ed ascoltando suoni che, senza l’aiuto dei grandi, non riesci a comprendere. Quello che è rappresentato è FINZIONE, ma è costruito talmente bene che sembra vero. Devi sempre farti accompagnare da un adulto che ti può spiegare, ad ogni passo, come distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Ed inoltre, pur conoscendo la REGOLA DEL TEMPO, sei stata vicino al video per tutto il pomeriggio buscandoti un gran mal di testa e un gran mal di occhi.”

Lulù, dapprima si meravigliò molto perché comprendeva le parole di quel micio strano …. ma  poi, comprese anche che aveva commesso un grosso errore ed urlò ancora più forte di prima … svegliando, così, tutti gli abitanti di GUARDAUNPOTU’.

Si aprì la porta della cameretta e mamma e papà corsero a consolare Lulù che, fra lacrime e grida, raccontò la sciocchezza che aveva compiuto quel pomeriggio, promettendo di non ripeterla mai più.

I genitori abbracciarono forte e rassicurarono Lulù. Avrebbero voluto darle una punizione, ma rinunciarono perché la bambina, purtroppo a sue spese, aveva già imparato la lezione….

Per quella notte mamma, papà, Lulù e Gianlù …. dormirono insieme fino a non poterne più.

 Gatto capì che la situazione era tornata sotto controllo, a Lulù, con vicino la sua mamma ed il suo papà, non poteva capitare nulla più. Un balzo felino e saltò fuori dalla finestra, brontolando mi mi miao, mi mi miao, mi mi miao che tradotto significa meno male che i bambini hanno i genitori che li aiutano a ripararsi dai “pasticci” … io da solo non ce la farei.

 E con un batuffolo, fatto di peli arruffati, si sturò le orecchie feline tappate.

FINE

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