FINO A QUI TUTTO BENE è il bellissimo linbro che Sabrina Paravicini ha scritto per raccontare la sua malattia e la lotta che ha ingaggiato per affrontarla. Un libro che dona una grande forza a chi lo legge e che offre un senso nuovo per vedere le cose che fanno parte della nostra vita. Uno sguardo per non dimenticare quanta luce e bellezza donino ad ogni nostro nuovo giorno i risvegli e le attenzioni verso noi stessi e chi vogliamo bene.
Nel video che segue Sabrina ci racconta le sue paure e la sua storia:
Qui la sua storia:
Che strumenti abbiamo per resistere alla paura …
Iddio, per chi crede, o la Natura, per gli altri,
concede ai bambini l’innocenza e agli adulti l’amore.
Innamoriamoci dunque … della casa, dei figli, del marito, della moglie, del compagno, della compagna, dei libri, dell’amante, della pittura, della scultura, del gatto, del cane, del canarino, della tartaruga, della cucina, dei piatti caserecci, delle melenzane pure …innamoriamoci della VITA.
Questo libro mi ha catturato sin dalle prime pagine…
Probabilmente era il momento giusto per una romanzo di pura narrativa dopo tante letture di storie reali, biografiche e di saggi. Oppure probabilemente mi è piaciuto perchè è proprio un bel libro che intreccia tre storie di donne in modo mirabile e che in poche righe ti prende per mano e ti porta in India, per poi saltare a Palermo e infine approdare in Canada.
I capelli legano le storie di tre donne attraverso una treccia grande e la treccia di una bambina.
Mi sono ritrovata a fare il tifo per il viaggio di una, a sperare che l’amore potesse aiutare e sostenere un’altra e ad arrabbiarmi per l’ultima arrivata. Ma ho amato queste tre donne, così diverse, così lontane eppure così simili nella battaglia quotidiana per affermare sè stesse.
Leggetelo se vi piacciono le storie belle.
Leggetelo se vi piacciono le donne forti e indomite.
Leggetelo se amate le scrittrici che con poche parole sanno disegnare ampi panorami.
Leggetelo comunque perchè alla fine dona una bella sensazione di felicità.
La storia di Nadia emoziona e ci rende migliori oltre a infondere grande coraggio. Sul nr. 51 di Confidenze in edicola il 10 Dicembre 2019. BUONA LETTURA
Sul nr. 41 di Confidenze in edicola dal 01 ottobre 2019 c’è Stefania D’Agostino. Leggete la sua storia di forza e caparbietà per la vita.
“Vinco io, anche questa volta vinco io.”
Mi chiamo Stefania, ho 48 anni e sono innamorata della vita. Se qualcuno mi chiedesse la frase che più mi rappresenta, utilizzerei esattamente queste parole: amo la vita che per me significa movimento. Sono sempre stata una persona sportiva, energica e solare. Soprattutto sportiva, direi. Sin da piccolissima nuotavo e mi allenavo tutti i giorni tanto che la piscina era la mia seconda casa. Amavo anche sciare, prendevo la prima e l’ultima funivia. Non c’era pista in ombra o ghiacciata che mi spingesse a rientrare prima, sciavo fino all’ultimo raggio di sole disponibile. Andavo a scuola con i pattini a rotelle. Al parco a giocare a hockey o a football americano. Equitazione durante il weekend. Al lavoro in bici. A stare ferma non ci riuscivo proprio, ogni cosa che facevo era un’occasione per muovermi. Poi con l’amore, nel 2002 è arrivata la gioia di diventare madre e la vita mi ha donato Isabella. I primi due anni con la mia bambina sono stati fantastici, unici. Poi è accaduto qualcosa. Ho iniziato ad essere stanca. Ero uno stato che non mi apparteneva, fino allora ero stata sempre elettrica, intuivo che c’era qualcosa che non andava. Quando ho iniziato ad avere la febbre, ho fatto tutti gli esami utili e l’esito era da togliere il fiato. Mi hanno diagnosticato la leucemia mieloide cronica. La mia Isabellina aveva 2 anni e 1 mese ed io avevo la leucemia. Ero paralizzata dal terrore e sentivo che il mio corpo cadeva a pezzi. In mille pezzi. E’ iniziata la trafila di esami, visite mediche, cure e viaggi per trovare l’istituto migliore che potesse aiutarmi. Ho peregrinato in diversi ospedali finché non sono arrivata a Bologna. Lì ho trovato un dottore che, oltre ad essere un valido medico, è una persona con un grande cuore e, oggi, posso dirlo anche un caro amico. Nel marzo 2004 ho iniziato la cura con un nuovo farmaco. Le strade in salita mi sono sempre piaciute, amo le sfide, ma la montagna che mi si parava davanti era enorme, il mio personale Everest, e ce la dovevo fare. Era una sfida che volevo vincere con tutta me stessa. Non sapevo se la mia forza sarebbe bastata, purtroppo per alcuni meno fortunati non basta, ma ci dovevo provare fino all’ultimo. Ogni mattina guardavo la mia bambina e mi caricavo di energia per trascorrere la giornata. Non potevo abbandonarla, non potevo lasciarmi andare. Sono stati tre anni durissimi. La mia vita, e anche quella di chi mi era vicino, era radicalmente cambiata. Il mio corpo mi era diventato estraneo. Tremavo di freddo anche d’estate, la luce del sole mi feriva gli occhi, lo stomaco si ribellava. Avrei voluto reagire come avevo sempre fatto, sfogandomi col movimento, ma era diventato impossibile. Facevo dei tentativi, ma la stanchezza cronica prevaleva su tutto. Sono dovuti trascorrere altri quattro anni per poter sentire le parole “magiche” pronunciate dal mio dottore “sospendiamo la cura, la leucemia è domata”. Perché la leucemia si doma, ci si può vivere insieme, ma non si può ancora sconfiggere con le attuali conoscenze mediche. Piano piano i crampi e l’eterna stanchezza sono spariti, le unghie hanno ripreso a crescere normalmente, i cerchi neri da malata cronica sono andati lentamente sbiadendo e i capelli si sono ricompattati in una criniera. Sono tornata ad essere io, a riconoscermi per davvero. La mia Isabella è diventata nel frattempo una bambina bella e atletica. Guardandola mentre si allena per la sua prima gara di triathlon ho sentito crescere in me, oltre alla voglia di riprendere a fare sport, anche la possibilità di farcela. Non so ser per le altre persone è lo stesso, ma per me muovermi è un’esigenza vitale. Ho bisogno di sentire il sangue che pulsa nelle vene, ho bisogno di una sfida, di un limite da superare. Non è come pensano in tanti una sfida per arrivare prima, la prova più importante è quella che mi permette di superare il mio personale limite raggiunto nella corsa, nella nuotata, nella sciata precedente. La mia vita riprende. Ritrovo stabilità, forza, coraggio. Fino a dicembre 2015, quando mi diagnosticano un carcinoma al seno destro maligno. Mi crolla di nuovo il mondo addosso, ma stavolta mi sale in corpo, oltre ad una paura folle, anche una rabbia incontenibile e la rabbia il motore con il quale combatto questa nuova battaglia. Mia figlia e la mia dolcissima cagnolina sono le mie alleate. Ogni giorno mi ripeto come un mio personale mantra che “la vita è un opportunità, non voglio sprecarla, non voglio buttarla, devo reagire”. E supero anche questo. Dopo i tempi di recupero, riprendo il triathlon, il mio nuovo amore. Nuoto, bici e corsa a piedi tutto di filato, sono i miei nuovi amici e i traguardi da raggiungere. Mi sento viva. Sono io, non posso fermarmi. Prima dell’operazione al seno avevo dato la mia parola alla squadra che avrei dato il mio contributo per la staffetta nel nuoto e, senza dire a nessuno dell’operazione subita, dopo pochi mesi mi butto a capofitto negli allenamenti. Quella staffetta era il mio obiettivo, e se c’è una cosa che ho imparato in questi anni, è che non bisogna mai perdere gli obiettivi: sono il motore di tutto, e senza quelli la vita si ferma. La differenza però stavolta la fanno le mie compagne di corso. Le trovo ad ogni allenamento e sono sempre pronte a sostenermi, a spronarmi e sopra ogni cosa e a credere in me come io credo in loro. Lo sport è unione e per me questo è il valore più alto che ci possa essere. Insieme si possono traguardare risultati insperati che da soli sarebbe quasi impossibile raggiungere. Sull’onda dell’entusiasmo per la “nuova guarigione” decido di provarci e mi butto a capofitto nel mio primo “ironman” a staffetta. Io nuoto, poi passo il testimone alla compagna che corre in bici che, a sua volta, lo passa a quella che corre. Con le mie due compagne di viaggio dobbiamo allenarci per completare quattro chilometri di nuoto, centottanta chilometri in bicicletta e quarantadue chilometri di corsa. Ecco cos’è un ironman. Una sfida competitiva, una prova dove vince chi ha contemporaneamente fiato e testa, oltre ad un’estrema fiducia nelle altre compagne di viaggio. E io ci voglio provare. La gara si svolge a Maastricht, la città dove è nata e cresciuta mia madre. Le mie zie sono lì e fanno il tifo per me. Quando sento l’inno Olandese torno indietro nel tempo a quando ero piccola e inizio a piangere. Poi il gong da il via alla competizione e piango. Un fiume di lacrime nostalgiche, incredule e piene di felicità che fanno scorrere via tutta la disperazione, la rabbia, l’angoscia accumulata in tutti questi anni. Sono solo felice. Viva. Dopo Maastricht, segue la gara di Francoforte, un full ironman, la gara più impegnativa che ci sia. Devo fare tutto da sola, nuoto, bici e corsa. Sola con la mia testa e la mia anima. Gli allenamenti sono massacranti, ma quando hai attraversato il cerchio di fuoco della leucemia e del cancro, le cose appaiono sotto un’altra luce. Anche la stanchezza che ti toglie il fiato la sento come positiva. Le mia bambina e la mia cagnolina mi seguono d casa. In tanti, familiari e amici, mi seguono attraverso una app creata apposta per la gara. Non sono sola. Ho un sorriso infinito per tutta la gara, di quei sorrisi che non sai spiegare e che non puoi trattenere. Ho voglia di vivere, di riscatto, di passione, ho su le ali della vittoria e della felicità. E poi vedo il tappeto rosso dell’arrivo. L’urlo liberatorio mi rimbomba ancora nelle orecchie e mi libera per sempre. Dopo la gara, ho rotto l’ultimo muro che mi separava dalla completa liberazione dalle malattie, ho raccontato la mia storia. Alle mie amiche della squadra, ai miei colleghi, a chiunque voglia ascoltare. Il grosso fardello che avevo dentro da ben 14 anni mi è finalmente scivolato dalle spalle. Adesso sono guarita. Sono viva.
Il coraggio è un iceberg geloso degli sguardi altrui. Si mostra, ritroso, solo all’apice … sembra semplice, alla portata di tutti. Ed invece, nell’intimo, cela spessore e forza. Quando nel vuoto mare giornaliero, ne incontriamo uno, dovremmo cavalcarlo invece che fuggirne via.
(GPB)
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