L’altro giorno bevevo un tè in compagnia della mia più cara amica e, tra una chiacchiera e l’altra, Maria ha raccontato di sua cognata che dopo quindici anni di matrimonio si separa dal marito perché lui ha un’amante. Voglio bene a Maria e so che anche lei me ne vuole, ma non sono pronta ancora per riprendere a parlare di rapporti amorosi, nemmeno se riguardano qualcun altro. L’ho fissata seria e le ho detto di cambiare discorso. Lei facendo spallucce mi ha detto che non potremo osservare in eterno il silenzio stampa sull’amore. Ed effettivamente ha ragione, ma non ce la faccio. Non ancora. Al solo sentire la storia di sua cognata mi è tornata la rabbia e ho invidiato quella donna. Sì, avete capito bene, invidio sua cognata perché perlomeno ha una donna in carne e ossa con cui prendersela, un essere umano verso cui sfogare la rabbia di non essere più amata. Io invece non ho avuto neanche questo privilegio. Io sono stata lasciata per delle slot machine. Tre anni fa nella cittadina dove abito, ha aperto una sala bingo. Per noi cittadini è stata un’occasione di lavoro e la novità è stata accolta con entusiasmo. Ho trovato lavoro al banco che distribuiva gettoni per le slot e altri parenti e amici sono stati assunti dalla società che gestisce il locale. Il nostro paese non è in una zona di passaggio, siamo in una valle dove bisogna venirci apposta quindi fino a quel momento di stranieri ne avevamo visti pochi, ma con l’apertura della sala da noi è iniziato un viavai di gente. Il sabato organizzavano dei pullman dai paesi vicini e c’era il pienone in sala. Ripeto per noi è stata la manna del cielo. I bar dei dintorni e persino un paio di alberghi malmessi fino a poco tempo prima hanno iniziato a prosperare. Eravamo contenti e non pensavamo troppo alla provenienza di quel benessere. I primi mesi sono stati esaltanti. Mi piaceva il lavoro, mi piaceva sorridere ai visitatori e mi piaceva percepire finalmente uno stipendio regolare e non dipendere più dai miei. Poi passata l’euforia, ho iniziato a guardare meglio le persone che venivano e poco alla volta all’entusiasmo è subentrata la tristezza. Si trattava per la maggior parte di anziani soli e di uomini e donne di mezza età dall’aria scoraggiata. E, seppure le vincite erano modeste o nulle, le persone tornavano in sala sempre puntuali. Ho iniziato a fare i conti di quanto spendessero e restavo sbalordita perché con certezza dissipavano al gioco molto più di quanto guadagnassero o prendessero di pensione. A volte, a quelli che mi apparivano più disperati, cercavo di dare qualche consiglio bonario sul non spendere troppi soldi, ma la ludopatia è un comportamento difficilissimo da fermare. Credo che si rendessero conto che spendevano era al di sopra delle loro possibilità, ma non riuscivano a smettere. Non riuscivano a fermarsi. In quel periodo ho iniziato a dubitare del mio lavoro. Certe mattine ero assalita da una tale fiacca che mi risultava difficile persino tirarmi su dal letto. Mi passavano davanti le facce di quei poveretti che ogni sera tornavano quasi con zelo a rovinarsi ancora di più e mi veniva tristezza. So che non li costringevo io a giocarsi tutto al bingo e alle slot, ma mi sentivo complice lo stesso. Ero là e il mio stipendio arrivava dalle fortune di altri sperperate al gioco. Non mi ci ritrovavo in tutto questo, ma non volevo rinunciare alla paga e alla libertà. Ero molto combattuta se restare o andarmene. Poi prese a frequentare la sala un ragazzo di un paese vicino. Dapprima veniva solo qualche volta il sabato, poi col passare delle settimane iniziò a passare ogni sera. Si chiamava Umberto, veniva alla cassa e col suo sorriso solare, così diverso da quello mesto degli altri visitatori, mi chiedeva di dargli dei gettoni. Una sera mi chiese anche il numero di telefono, oltre i gettoni. Non sapevo cosa fare, ci avevano proibito di avere contatti privati con i frequentatori della sala, ma Umberto sorrise e mi schiacciò l’occhio con fare complice. Non ho saputo resistere. Iniziammo a frequentarci. Lui era divertente e trascorrere del tempo insieme era molto rilassante. Aveva la battuta pronta e respingeva qualsiasi ragionamento serio con arguzia. Mi fece passare la tristezza. Venina tutte le sere in sala giochi e io ero convinta che venisse per vedere me, non per giocare d’azzardo. Lui, poi, scambiava solo pochi spiccioli, non dava la sensazione di essere un giocatore incallito. Saltellava da qualche slot al mio banco con naturalezza. E’ un ragionamento stupido e ingenuo visto con gli occhi di oggi, ma in quel periodo io veramente pensavo che fosse lì solo per me. Se avessi avuto più esperienza sulla ludopatia, la maledetta malattia del gioco d’azzardo, avrei riconosciuto i segni. L’euforia ingiustificata, la semplicità con cui si spendono soldi credendo di poter fare vincite sicure, l’eccitazione al pensiero di scommettere. Ma ero innamorata cotta di Umberto e non riuscivo a vedere i segnali che indicavano che qualcosa non andava nel nostro rapporto. Col passare dei mesi, i segnali aumentarono. Lui schivava le mie richieste di vederci anche in orari diversi da quelli del mio lavoro. Per noi non c’erano gite fuori porta domenicali o tra i negozi del centro. Umberto di giorno lavorava e di sera era in sala. Le puntate al gioco iniziarono ad aumentare. Una sera facendo i conteggi, mi resi conto che anche lui spendeva più di quanto guadagnava. Lo giustificai pensando che non si fosse reso conto dei soldi buttate via e mi imposi di parlargli per farlo ragionare. Le mie parole, come al solito, non furono prese sul serio. Mi blandì dicendo che esageravo. Ma io sapevo che non era così, sapevo pure che non mi piaceva che giocasse così tanto, ma allo stesso tempo avevo paura che insistendo avremmo litigato. Così ho lasciato perdere per un po’, pensando che la mia vicinanza e il mio amore gli avrebbero fatto cambiare idea presto sull’esagerazione al gioco. Quanto sono stata stupida! Siamo andati avanti così per mesi. Umberto giocava sempre di più e io ero sempre più disperata, ma non riuscivo a fare niente. Poi è arrivata quella sera. Era un martedì. Stavo al banco come sempre e lui, finito di lavorare, mi ha raggiunto in sala. Era più agitato del solito e il suo sorriso che tanto amavo, appariva tirato. A metà serata, dovevo andare in bagno e gli ho chiesto di restare nei pressi del banco e dire alle persone che volevano i cambi monete di aspettare qualche minuto il mio arrivo. Lui si è seduto al mio posto. Mentre andavo verso i servizi, mi sono accorta di aver lasciato la borsa al banco e sono tornata indietro per riprenderla. Entrata in saletta, ho visto Umberto che estraeva dalla cassa manciate di monete che infilava in tasca. Una doccia fredda o un ceffone secco in viso mi avrebbero fatto meno male. La verità mi è apparsa in tutta la sua crudezza. Umberto stava rubando, senza neanche pensare che questo suo gesto metteva a repentaglio anche me. I controlli erano frequenti e la sala avrebbe potuto denunciarmi per un ammanco significativo. Lui lo sapeva. Ma mentre lo guardavo arraffare monete, il suo sguardo era appannato. Io non esistevo in quel momento e forse non ero mai esistita. Sono andata in bagno e non gli ho detto niente. Il giorno dopo ho dato le dimissioni. Era l’unico atto che potevo fare per dare un taglio a quella situazione. Sinceramente quando l’ho fatto pensavo che Umberto mi sarebbe corso a cercare, che mi avrebbe implorato di stare insieme a lui, cose così insomma. E invece non è accaduto niente. Come se io nella sua vita non ci fossi mai stata. Umberto, come mi hanno riferito alcun amici, ha continuato a frequentare la sala giochi. Io ho fatto fatica a trovare un altro lavoro, ma alla fine ce l’ho fatta. Quello che ancora non sono riuscita a fare è accettare l’idea che tutto quello che c’è stato fra noi era solo nella mia mente. Una psicologa che ho consultato mi ha detto che le persone affette da ludopatia sono chiuse in un mondo dove esiste esclusivamente il gioco d’azzardo. Fintanto che non si convincono che hanno un problema, non c’è modo di aiutarle. Fino ad allora tutto ciò che li circonda è un corollario utile a far sì che possano raggiungere il loro scopo. Io quindi sono stata un corollario. Non è semplice da accettare. Ci vuole tempo. Sono tornata al mio tè, ho sorriso a Maria e le ho premesso che riprenderò a parlare d’amore. Non so ancora quando, ma lo farò.
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